L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tradotto e tagliato

di Francesco Lora

Il Teatro alla Scala perde l’occasione e disattende l’obbligo delle Vêpres siciliennes, preferendo a esse il Verdi sminuito di obsoleti Vespri siciliani tradotti e tagliati. Asciutta direzione di Fabio Luisi e nuovo allestimento tutto firmato da Hugo De Ana. Notevole la compagnia di canto, soprattutto grazie a Marina Rebeka, Piero Pretti e Luca Micheletti.

MILANO, 28 gennaio 2023 – Al Teatro dell’Opera di Roma, nel 2019, e al Massimo di Palermo, un anno fa, Les vêpres siciliennes sono andate in scena nell’originale lingua francese e integre (o quasi) della loro mezz’ora di divertissement danzante all’atto III: per un’istituzione di rilievo internazionale, del resto, oggi non è nemmeno questione di scegliere in quale assetto dare il secondo grand opéra di Giuseppe Verdi, francesissimo di genere e meyerbeeriano di genoma; irrinunciabilmente, sostanzialmente. Poco deve importare che quest’opera abbia fatto il giro del mondo, dalla seconda metà dell’Ottocento alla seconda del Novecento, come I vespri siciliani, nella versione ritmica italiana – travagliata, tra censura qui asburgica e là borbonica – del volonteroso Eugenio Caimi; quella traduzione serviva, in tempi differenti dagli attuali, per vendere il prodotto all’interprete e al pubblico non francofoni, pagando tuttavia il fio di versi assai ostici alla naturalezza del canto e alla logica autentica della melodia: ciò accade tipicamente, d’altra parte, quando si volge un libretto dalla lingua di Victor Hugo (per esempio, poiché basata su metri infrequenti nella poesia italiana e soprattutto poiché zeppa di uscite tronche) a quella di Alessandro Manzoni (per esempio, poiché quelle troppe uscite tronche risultano ridicole, se mantenute, o macchinose, se convertite in piane). Posta la consueta prolissa premessa, al Teatro alla Scala, per la prima di sette recite dal 28 gennaio al 21 febbraio, nelle poltrone intorno a chi scrive c’erano soltanto melomani stranieri – numerosi yes, qualche ja, infiniti oui – o milanesi ad alto tasso di prestito linguistico, alla maniera della ragazza-ricca-che-lavora illustrata da Franca Valeri: è stato in tal modo commesso un doppio peccato di provincialismo, col darsi non le universali Vêpres siciliennes, bensì gli ormai campanilistici Vespri siciliani, per giunta col taglio del balletto e – insolita oscenità – del coro iniziale all’atto V. Spiace che il buon esempio romano e siculo non attecchisca nella pianura padana: s’è appena detto di Milano, anzi addirittura della Scala, e si sa già che al Comunale di Bologna, nell’aprile prossimo, il ripreso allestimento del Massimo sarà banalizzato col libretto tradotto e le danze via stralciate.

Vero è che la lettura musicale data a Milano fa piazza pulita del grand opéra e insegue una sintesi culturalmente non connaturata alle Vêpres siciliennes. La concertazione di Fabio Luisi – ci s’intenda – affascina per quel suo incalzare l’orchestra, metallicamente armata fino ai denti, e il coro, vellutato e prestante come solo alla Scala, in una concezione energica e asciutta, arcinemica della stasi decorativa e del compiacimento calligrafico. Bene così; anche così. A patto di non dimenticare che tale soluzione disbriga con la comodità di una sola, sferzante idea una partitura e un dramma i quali, al contrario, procederebbero con lento flusso – Verdi non è sempre precipitoso – e con la mutevole, studiata varietà di toni distribuita lungo ben cinque atti e venti “numeri”. Ingente di strutture e innocuo di messaggio, lì assieme, sta il nuovo allestimento con regìa, scene e costumi di Hugo De Ana; vi ha luogo una fantasiosa trasposizione al 1943 dell’Operazione Husky, con dovizia di carri armati nonché d’infarti in platea per l’abbondanza di spari: si rimpiange la galanteria dell’archibugiata a Posa o della fucilazione di Cavaradossi, che almeno fanno appallottolare per tempo i melomani esperti nelle loro poltrone. Formidabile la tecnica di movimento delle masse in palcoscenico; non di pari livello la dedizione al lavoro attoriale con i cantanti. Il più sorprendente è Piero Pretti, che nella dissimulata micidialità della parte di Arrigo mostra un porgere franco e pieno di comunicativa, un canto tanto semplice quanto forbito, un Re sopracuto facilissimo e insomma un’attitudine verdiana da far mettere sull’attenti. Marina Rebeka fa strabene a togliersi e toglierci lo sfizio d’approcciare – con maggior senno se una tantum – quella Duchessa Elena dall’estensione esosa e dalle ben tre arie, tutte dominate tra copertura tecnica, veniale esilità dei gravi e sparuti fischi di due balordi. Si tratta forse del più esposto ingaggio, finora, di Luca Micheletti: il suo Guido di Monforte impressiona per dotazione naturale di mezzi e maturità retorica e gestuale; non trascuri però il “giro” delle note, che dai due tagli in poi, sopra il rigo, perdono vividezza. Dignitoso senza essere divo, come Giovanni da Procida, il robusto e vigile Simon Lim.


 

 

 
 
 

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