Auspici e conforti
Il 2024 ha portato molte soddisfazioni, ma anche sollevato problemi e mosso a riflessioni critiche. Si sono applauditi ottimi spettacoli, ma, per esempio, il centenario pucciniano ha in larga parte fallito il suo scopo.
Si chiude un altro anno di musica. Un anno – posso dirlo dopo aver contato una media di almeno un'opera o concerto ogni tre giorni – ricco di soddisfazioni. Il mondo intorno a noi non si può dire che se la passi bene, arroccandosi su fronti alieni da ogni forma di ragionevole comunicazione, e le arti lo rispecchiano con non poche criticità, tuttavia vediamo anche spiragli di luce che ci confortano. C'è, è vero, un meccanismo mediatico che decide cosa deve per forza essere buono e presente ovunque, a diversi livelli e con diverse modalità, dai talenti veri coccolati e coltivati da un sistema ben oliato, al talento nullo ben infiocchettato e funzionale ad altro tipo di mercato. Tuttavia c'è anche chi sfugge a queste logiche, perché ha davvero qualcosa di interessante da dire e lo persegue con serietà. Di cose buone ne ho sentite molto, alcune eccellenti, lampi di genio, oppure anche solida professionalità, onesta dedizione alla musica e al teatro, consapevolezza di sé, serio lavoro di crescita. Tanti sono i nomi appuntati nel corso degli ultimi mesi che spero di risentire in futuro e veder crescere.
Fra i ricordi di quest'anno resterà anche la scomparsa di Gianfranco Mariotti, ma, nel dolore, ciò che persone come lui hanno lasciato va oltre, fra la gioia di averli incontrati e la responsabilità di essere degni del loro esempio e della loro eredità.
Ho avuto anche la gioia di imbattermi in spettacoli che scaldano il cuore perché tutto funziona, tutti vanno nella stessa direzione e ci si muove allora a un livello superiore, come nell'Ermione di Pesaro o nel Peter Grimes di Roma, per me i migliori spettacoli operistici dell'anno, entrambi diretti da un Michele Mariotti in stato di grazia, per me senz'altro il miglior direttore italiano della sua generazione. Ma, a proposito di direttori, come non gioire nel riascoltare (me lo perdevo da troppo tempo) Vladimir Jurowski, che, lo ricordo, venticinquenne a Pesaro si rivelò con il monumentale Moïse et Pharaon con la regia di Graham Vick. Alla stessa fascia d'età appartiene Alessandro Bonato, quest'anno ascoltato per la prima volta con l'Orchestra Haydn, alla Scala e con il Maggio Fiorentino: mi è facile, di fronte a quella che è più certezza che speranza, vederlo seguire le orme di Jurowski. Intanto, e per fortuna, i decani reggono splendidamente: Daniele Gatti è in una fase artistica felicissima e a Dresda il suo concerto con la Staatskapelle è stato uno degli appuntamenti più straordinari dell'anno; Riccardo Chailly, nondimeno, ha offerto nella Forza del destino forse la sua più bella inaugurazione scaligera insieme con la mia amatissima Giovanna d'Arco.
La programmazione dei teatri italiani soffre, purtroppo di qualche pigrizia di troppo (sentendo Marta Torbidoni come Norma e Odabella sogno una serie di titoli belliniani e donizettiani che fuori dai festival sembrano un'utopia: e sì che, appunto, i cantanti ci sarebbero). Quando poi, invece, ci si muove fuori dai soliti binari ci si chiede fino a che punto “basti il pensiero” o non ci si possa accontentare: è stato il caso del Mosé in Egitto proposto dai teatri emiliani suscitando gioia immensa per la scelta del titolo ma anche tante perplessità per concertazione e orchestra non all'altezza e regia ferma al tableau vivant.
In sostanza, se dovessi stringere a una rosa di nomi quel che mi porterò più volentieri nella memoria dell'anno appena trascorso, la lista (non esaustiva) è questa:
Soprani: Anastasia Bartoli (Ermione), Mariangela Sicilia (Mimì e Nedda), Marta Torbidoni (Norma e Odabella)
Mezzosoprani: Raffaella Lupinacci (Sara di Nottingham), Annalisa Stroppa (Romeo e Charlotte)
Tenori: John Osborn (Roberto Devereux), Enea Scala (Ermione), Luciano Ganci e Antonio Poli.
Baritoni: Ludovic Tézier (concerto a Bologna e Don Carlo di Vargas), Nicola Alaimo (Gamberotto), Lodovico Filippo Ravizza (Belcore e Renato), Pietro Spagnoli (concerto a Pesaro), Roberto De Candia (Gianni Schicchi), Marco Filippo Romano (Fra Melitone)
Bassi: Michele Pertusi (Don Basilio, Banquo, Mosé), Giorgi Manoshvili (Capellio, Attila), Luca Tittoto (Sir Giorgio Valton)
Registi: Johannes Erath (Ermione), Moshe Leiser e Patrice Caurier (L'equivoco stravagante), Daniele Menghini (L'elisir d'amore e Un ballo in maschera), Deborah Warner (Peter Grimes)
Direttori: nati prima del 1970 Daniele Gatti (concerto con la Staatskapelle di Dresda) e Riccardo Chailly (La forza del destino); nati fra il 1970 e il 1979 Vladimir Jurowski (concerto con la Bayerische Staatsorchester); nati dal 1980 Alessandro Bonato (cocnerti con l'orchestra Haydn, la Filarmonica Marchigiana, l'Accademia della Scala, il Maggio Fiorentino e i pomeriggi musicali)
Opere dell'anno: Il Trittico a Torino, Ermione a Pesaro, Peter Grimes a Roma
Concerti dell'anno: Jurowski a Bologna con la Bayerische Staatsoprchester, Gatti a Dresda con la Staatskapelle
E quello che non va? Alcuni punti nodali come la débacle di molte celebrazioni pucciniane, la necessità di direzioni artistiche intraprendenti e competenti, problemi generali nel dibattito culturale e, in teatro, più che le voci (di livello generalmente soddisfacente) i problemi li ho visti nella direzione musicale e teatrale, fra bacchette inadeguate e regie irrisolte.
Povero Puccini!
Celebrare Puccini, vale a dire l'operista con il maggior numero di titoli fra i più rappresentati al mondo, non è semplice: non abbiamo riscoperte eclatanti o rarità paragonabili a quelle riemerse con la Rossini e, in generale, la Belcanto Renaissance. È difficile pensare che esista al mondo una persona, tranne forse in qualche angolo sperduto, che non abbia mai sentito il tema di “Nessun dorma”. Allora, bisogna cercare di ragionare con un po' di finezza o quantomeno di far le cose per bene. Non è mancato chi lo abbia fatto, in effetti: per esempio, il Teatro Regio di Torino, nei dodici mesi dall'ottobre 2023 all'ottobre 2024, ha proposto le tre opere che hanno debuttato all'ombra della Mole (La bohème, Manon Lescaut, la seconda versione delle Villi) e le tre più rare fra quelle della maturità (La rondine, La fanciulla del West e Il trittico nella sua interezza). Anche Bologna – accantonando l'iniziale idea di una bizzarra diluizione in tre serate – ci ha permesso di assistere al Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi insieme come l'autore li ha pensati. Non va trascurata, peraltro, La rondine scaligera con Chailly sul podio e Sicilia protagonista, né l'interessante abbinamento che l'Orchestra Haydn di Bolzano e Trento ha proposto fra lo Schicchi e Pierrot Lunaire, celebrando anche il centenario dall'incontro fra Puccini e Schönberg. A Montecatini, con tutt'altri mezzi, un'ottima idea è stata la proposta a confronto dei principali finali di Turandot (morte di Liù, Alfano, Berio).
Del buono è venuto sul piano degli studi, quelli seri, con tavole rotonde, convegni, pubblicazioni nuove o ristampe. Tutti spunti per una riflessione inesausta su uno dei musicisti più complessi e raffinati del XX secolo, nonché uno dei più popolari, amati e comunicativi, un rivoluzionario che a molti pare rassicurante, un coltissimo e tormentato ricercatore dall'irresistibile appeal leggero, uno nessuno e centomila che finisce inevitabilmente in preda di troppe mani bramose di godere di un pizzico della sua gloria. Troppi l'hanno fatto proprio e l'hanno distorto, con la scusa (se così si può dire) che con Puccini si vince sempre, si “vince facile”.
Lui, l'autore di un teatro modernissimo, serrato, in cui il fluire reale del tempo e la regia musicale senza soluzione di continuità sono elementi chiave, viene comodamente trasformato in uno spezzatino di belle melodie che garantiscono il successo a ogni galà, ma si allontanano passo dopo passo dal senso della sua opera. Intendiamoci, c'è contesto e contesto e non ci si accanisce con la piccola realtà che imbastisce un omaggio al grande, ma si constata il fallimento di chi avrebbe dovuto occuparsi delle celebrazioni ai massimi livelli: una montagna (anche di finanziamenti) che ha partorito un topolino nazional popolare. D'altra parte, mentre il Rossini Opera Festival di Pesaro veleggia verso il mezzo secolo come punto di riferimento mondiale, mentre la formula del Donizetti Opera a Bergamo ha felicemente festeggiato dieci anni di proposte sempre stimolanti e a Parma il Festival Verdi ha presentato varie iniziative degne di nota, a più di settant'anni il Pucciniano di Torre del Lago arranca e vivacchia: Tosca, La bohème o Madama Butterfly fanno sempre cassetta, ma se si cerca un qualche motivo di distinzione artistica si guarda altrove. Anche quest'anno, ahinoi, e spiace per chi nelle maestranze lavora e ci crede o per quei nomi comunque validi che fanno capolino in cartelloni gravati da troppe zavorre.
Povero Puccini, il cui genio sarebbe la gioia di tanti direttori davvero validi, di registi intelligenti, di cantanti attori di prima qualità: tutte queste persone, volendo, ci sono. Basterebbe chiamarli e non lasciare il povero Giacomo, strapazzato dai luoghi comuni come comodo veicolo di successo di fronte a un pubblico da reality show.
Che, dopo il purgatorio delle celebrazioni del 2024, l'anno nuovo ci liberi dal puccinismo e dallo sfruttamento di un'arte meritevole di ben altro.
Direttori artistici cercansi
C'è una specie in via di estinzione e di cui si sente una gran mancanza: i direttori artistici (per fortuna con qualche eccezione superstite: confidiamo, per esempio, nel giovanissimo Edoardo Bottacin di Rovigo).
Molto spesso si sentono additare gli agenti come una specie infida causa di ogni male. Certo, esistono diversi esponenti della categoria che possono giustificarne la nomea, ma anche tanti ottimi professionisti che svolgono con coscienza e competenza il loro mestiere. Dopotutto non possiamo negare che servano: un artista non può pensare a gestire da solo contratti, contatti, logistiche, soprattutto a inizio carriera Può aver bisogno di consigli. È pure comprensibile che un direttore artistico, non potendo essere sempre ovunque, possa avere fiducia e stima di un agente che usa presentargli artisti validi. Perché no?
Possiamo tutti fare il gioco di verificare le agenzie di riferimento dei nomi in un determinato cartellone per scoprire presenze massicce di questa o quella scuderia in un teatro in un altro, o abbinamenti fra nomi di punta e altri di cui, altrimenti, non ci spiegheremmo proprio la presenza. In tutta onestà, però, non mi sento di condannare a priori certe frequenze di contratto: è naturale che un direttore artistico abbia i propri gusti, preferisca certuni a certi altri, così come è perfettamente umano che si trovi meglio a trattare con un agente piuttosto che con un altro. Il problema, naturalmente, si pone quando quel che può essere naturale gusto o affinità travalica i limiti ragionevoli, quando si notano monopoli (o embarghi) e quando si comincia a sentire aroma di malafede. Il potere dell'agente viene dal direttore artistico che glielo dà: può essere, più che potere, giusto riconoscimento di un buon lavoro; può essere la trasformazione in un direttore artistico ombra. In quest'ultimo caso, ecco che nelle stagioni il rincorrersi di titoli rassicuranti e di qualche occasionale primizia inserita per i palati più esigenti e magari per onorare un anniversario può finire per corrispondere al rincorrersi degli stessi nomi, meticolosamente compilati dal roster di riferimento. La deriva si verifica se non abbiamo la vera figura del direttore artistico a reggere le fila del teatro e soffre della sempre più frequente fusione amministrativa con il sovrintendente (che è altra cosa, ha altri compiti e altre competenze) come dell'intromissione del marketing a consigliare le scelte di cartellone. Ma queste scelte dovrebbero venire da un progetto artistico, da una ricerca, non da uno studio su una domanda già prevista e confezionata: tutti sono capaci a vendere la Nutella e, dunque, che merito avrà il consulente marketing o il dirigente che proporrà di mettere in menù la Nutella? Il nodo, per un operatore culturale, dovrebbe invece essere quello di pensare prima alla sostanza del progetto, al valore della programmazione e degli artisti, di cercare le persone giuste senza abbandonarsi alle mode e poi a come proporlo e venderlo al pubblico.
Difficile? Certo, nessuno dice che il mestiere del direttore artistico sia semplice, ma è così che va fatto, è così che nel secolo scorso lo hanno esercitato i Carlo Majer, i Gioachino Lanza Tomasi, i Luigi Ferrari, e altri prima di loro, con loro e dopo di loro. Ciascuno con i propri limiti, i propri gusti, le proprie inclinazioni, da esseri umani, in un ruolo che deve suscitare discussione e che vorremmo tanto, come auspicio per l'anno nuovo, tornasse di moda.
La censura
Sembra un argomento fuori moda, roba da dittature conclamate, oppure una formula buona per tutte le lamentele: un cantante non viene invitato in una kermesse perché i suoi testi non vengono considerati adatti al contesto? Censura! Le cose, però, sono un po' più serie e complesse. L'ultimo numero di Tabloid, il periodico dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, così riporta nel sommario “Nel biennio 2022-2024 sono state registrate 250 segnalazioni di minacce e intimidazioni nei confronti dei media italiani, in aumento rispetto alle 74 del biennio precedente. Un quarto di esse proviene da pubblici ufficiali o membri del governo. È un cambio di passo, un salto di scala nell’eterno confronto tra libera informazione e poteri pubblici.” Non sono dati da poco e indicano un'incrinatura subdola nel principio della libertà di stampa e di opinione: da un lato la si invoca a sproposito, usurandola come preteso diritto di chiunque a dire qualunque cosa, per cui l'idraulico può pontificare di tecnica violinistica e il violinista di sistemi idraulici senza che si stabilisca quantomeno una gerarchia di competenze, oppure si può inneggiare a violenze, discriminazioni, crimini condannati dalla storia pretendendo la stessa dignità di qualsiasi opinione onesta e rispettosa. Tutti possono dire tutto di qualunque cosa e si perde di vista – e di autorevolezza – chi magari qualcosa da dire sul serio lo avrebbe e si trova invece in una condizione di fragilità.
I messaggi più o meno minatori che punzecchiano dopo qualche commento o recensione si cestinano (se vengono da troll anonimi ma anche da operatori ben riconosciuti) e diventano anzi oggetto di derisione, ma ci sono tanti modi per far sentire anche un giornalista, un critico, un musicologo meno sicuri: una letterina da un avvocato che non minaccia, magari, denuncia chiaramente, ma fa capire che si è tenuti sotto controllo (e anche chi non ha nulla da temere non ha nessuna voglia di imbarcarsi in un'azione legale). Poi ci sono tanti piccoli gesti, piccole ripicche, blocchi social (sì, succede anche questo: la manifestazione che insolentisce e blocca chi fa notare un errore grossolano in un post), battute che minano il rapporto di fiducia e rispetto che pur dovrebbe esistere. Anche perché una critica seria e motivata è anche un'occasione fruttuosa per mettersi in discussione con maturità, mentre additare sempre il critico cattivo e “invidioso” (quanto è abusata questa parola!) significa anche sgravarsi da ogni responsabilità, dare il consenso per scontato e dovuto.
Quando, poi, leggiamo che lo storico critico della Nuova Sardegna, Antonio Ligios, ha chiuso i rapporti con la testata dopo che il suo pezzo sul concerto di Uto Ughi è stato cestinato senza spiegazioni (pur richieste) e sostituito dalla trasformazione del comunicato stampa in amena cronaca post evento, allora un problema serio balza all'occhio. E non importa tanto sapere, nel caso specifico, da chi e perché sia venuta l'iniziativa: importa la trasformazione del mezzo di informazione da strumento critico a condiscendente, edulcorata narrazione in cui tutto va bene.
E invece no: bisogna porsi problemi, dire cosa per noi non va bene (se si è in grado di spiegarlo e argomentarlo), discutere, perché se nulla andrà mai male, allora non potrà nemmeno andar bene sul serio. Noi parliamo di musica, non affrontiamo le guerre o le pandemie, eppure anche noi siamo una cartina di tornasole per tutta la società, perché le arti sono una palestra per lo studio, il confronto e l'esercizio critico tanto preziosi in ogni aspetto dell'esistenza.
Per il 2025 vorrei qualche passo per una dignità e una libertà vera dell'informazione e della critica.
Tecnologie e ideologie
Che noia, che barba, che barba, che noia. Posso dirlo? Ci sono argomenti serissimi che si sciupano, si deturpano e si banalizzano cambiando sovente il vero obiettivo. Un esempio è la questione dell'Intelligenza Artificiale, di cui si temono derive fantascientifiche perdendo di vista questioni ben più concrete: gli strumenti dell'AI sono pesantemente energivori, ma quanti davvero parlano della sostenibilità? L'AI viene usata per creare una valanga di immagini “acchiappa like” e in tanti si chiedono a dove potrà arrivare la stupidità umana nel non riconoscere il falso o il potenziale del sistema a creare uno pseudovero. Forse sarebbe più opportuno ragionare su quanti scopi utili l'AI può avere (e, sì, ne ha, per esempio per compilazioni meccaniche, ricerche e confronti di dati, gestione di sistemi complessi) e sullo spirito critico necessario per discernere il valore di un contenuto, consapevoli delle sfumature fra reale, artefatto, arte, dello scopo neutrale, utile o insidioso. Occuparsi un po' più di arte e musica potrebbe essere utile per affinare questo discernimento; viceversa, appiattirsi in assoluti appiattisce anche il nostro rapporto con la musica e le arti.
E a proposito di assoluti, quanto sentiamo parlare di “politicamente corretto” come fosse il male assoluto o, viceversa, di crociate per cambiare il mondo. Le discriminazioni sono un problema serio, i cambiamenti della sensibilità nella coscienza di sé e nel rapporto con il prossimo un dato di fatto. Potrebbe essere interessante, invece, provare a dialogare, capire perché ci sono espressioni che oggi da qualcuno vengono ritenute offensive e da altri difese a spada tratta (non sia mai che non si trovi un punto d'incontro). Potremmo provare a pensare che il bene e il male, il torto e la ragione possono anche mescolarsi nell'esperienza diretta e metterci di fronte a ragionamenti complessi, che non fanno venir meno i paletti sui principi, ma aiutano a comprendere e risolvere i fenomeni. Fra la Sirenetta con la pelle scura e Otello pallido, possiamo pensare che l'incarnato è solo una caratterista esterna accidentale dell'essere umano, che ci può descrivere nell'aspetto ma non definire come persone e che in teatro può essere parte integrante del personaggio per qualche ragione drammaturgica ma anche un accessorio trascurabile. Basta che funzioni, alla fine.
La deriva più ridicola in tal senso è quella che taccia di innovazione per posizione ideologica “politicamente corretta” la pura e semplice grammatica italiana come l'ho studiata, senza prese di posizione politiche, alle elementari e come la trovo in pressoché tutta la letteratura. Ecco invece che usare certi sostantivi al femminile (concordanze perfettamente corrette e storicamente attestate, ma desuete perché era raro un tempo che le donne svolgessero alcuni lavori) è guardato con sospetto, come una strana idea sovversiva, e talvolta anche donne che stimo molto hanno riserve a usare espressioni come segretaria artistica, segretaria generale perché nel tempo abbiamo introiettato l'immagine della segretaria come di una fanciulla che smista le telefonate e fa le fotocopie, mentre il segretario è quello “dell'Onu”, “di Stato” e ha un ruolo di responsabilità.
Piccole divagazioni, ma non troppo perché per fortuna il mondo della musica è sempre più grande, sempre più vario. Già in un passato molto meno facile sotto questo punto di vista, nella musica, tutto sommato, ce la si passava meglio, vedi la figlia di un lacché africano (Vittoria Tesi) che nel Settecento diventa il contralto più acclamato del suo tempo, canta con Farinelli ed è sepolta con gli imperatori asburgici nella Cripta dei Cappuccini. Mi pare un bel punto di partenza per far vedere che non ci impantaniamo fra slogan sui social, ma guardiamo avanti, guardiamo oltre.
Buon 2025 a tutti!