L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un trionfo per la Dama

di Stefano Ceccarelli

La chiusura della stagione invernale/primaverile al Costanzi, che dà avvio alla tradizionale stagione estiva alle Terme di Caracalla, è demandata a una straordinaria versione de La dama di picche, con Evgenij Onegin la più celebre opera di Pëtr Il'ič Čajkovskij. James Conlon, tra i maggiori direttori d’orchestra al mondo, dona intensa vita a un capolavoro cantato, in lingua originale, da un cast interamente russofono. La regia è una ripresa (Benjamin Davis) di quella, rodata, di Richard Jones. La riuscita è piacevolissima: l’incredibile durata della produzione (quasi quattro ore, con due lunghi intervalli per i cambi di scena) non stanca il pubblico, che rimane partecipe fino all’ultima nota.

ROMA, 25 giugno 2015 – Ultima opera prima della pausa estiva del Costanzi (si riprenderà a settembre con uno spettacolo contemporaneo), La dama di picche incanta il pubblico romano e non. Eh sì, perché in platea si scorgevano diversi russi, pronti a godersi una delle loro glorie nazionali; per loro, sì, la Pikovaya Dama, mentre noi abbiamo dovuto accontentarci della Donna di picche, non potendola fruire (perlomeno, chi come me ignora la lingua russa) nella sua facies linguistica originale. Certo, la platea dell’Opera di Roma non era gremita come per la da poco conclusasi produzione del capolavoro mozartiano delle Nozze: ma ben si immagina che, per fama, i due capolavori sono in una situazione di sperequazione. Comunque, avere una discreta affluenza di pubblico è risultato non scontato e dovuto interamente a un’ottima produzione. Reggere quattro ore di spettacolo (con due lunghi cambi di scena), di un’opera per giunta cantata in russo – e qui benediciamo i tanto vituperati sovratitoli in italiano – non è operazione intellettuale agevolissima. Come che sia, chi si sia impaurito per l’impresa s’è perso un’opera di una profonda filosofia drammatica coniugata a una musica splendida, frutto più genuino del talento del celebre Čajkovskij.

Tutto questo squisito talento musicale è perfettamente esaltato dal direttore James Conlon, quasi una leggenda della bacchetta, che a Roma viene non di rado e volentieri. Contemporaneamente, sta anche dirigendo una produzione del Così fan tutte allo spoletino Festival dei due Mondi, fatto che attesta la sua non comune poliedricità. L’interpretazione della partitura è semplicemente straordinaria, senza se e senza ma. Semplicemente sublime, confacente al tono della musica. Esalta la maglia raffinatissima dell’orchestrazione di Čajkovskij, rendendone scoperte le citazioni: debiti consistenti Čajkovskij ha contratto con Bizet, innanzitutto, di cui cita a piene mani dalla Carmen, e con Donizetti, che il russo ammirava sommamente; ma non si dimentichi il Mozart di tutto il III quadro. Conlon rende indimenticabili momenti puramente atmosferici – nel creare i quali Čajkovskij è un vero mago –, come l’intensa ouverture e il furtivo preludio al IV quadro. La riuscita della serata si deve, inoltre, anche allo stato di grazia dell’orchestra dell’Opera di Roma, che suona divinamente, unendo alla precisione un suono vivido e smagliante.

Il cast dei cantanti è di assoluto livello, interamente russofono e già versato a vario livello nella Dama. Sopra tutti spicca il German di Maksim Aksenov. Perfettamente a suo agio in un ruolo in cui ha grande esperienza, forte di un incredibilmente calzante physique du rôle, staglia un’interpretazione di livello assoluto: dai recitativi scolpiti alle scene di più ampio respiro, come quella della morte della Contessa (IV quadro) e la successiva apparizione spettrale del suo fantasma (V quadro), ai momento più trasportati e elegiaci, come l’arioso del I atto o l’emotivo finale III, in cui riesce a morire con somma delicatezza. E con la stessa dolcezza parla a Liza nella toccante aria d’amore del II quadro (I atto). La sua voce, centrata e intonatissima, è ricca di venature bronzee, caldamente baritonali nei bassi, come pure è dotata di acuti smaglianti e svettanti. Buona, ma non straordinaria, la Liza di Oksana Dyka: pur essendo sostanzialmente il suo repertorio, presenta qualche pecca recitativa e interpretativa. Troppo piantata nella recitazione, poco compartecipe, nell’aria sul canale della Neva (quadro VI) mostra i suoi limiti vocali negli acuti troppo strappati, portati e sfogati in maniera lievemente intubata. Molto meglio in quel capolavoro che è l’amorosa aria alla notte del II quadro, quando Liza può confidare ai segreti del buio il suo celato amore; l’aria ha un’ottima riuscita anche grazie alla magia che Conlon riesce a creare tessendo le screziature dei legni e dell’arpa – e la mente corre alle sublimità romantiche del Lago dei cigni.

Magnifici sia il Conte Tomskij di Tómas Tómasson che il Principe Eleckij di Vitalij Bilyy: il primo ci regala una travolgente ballata nel I quadro (e un’interpretazione deliziosa di Montedoro nell’intermezzo bucolico della festa mascherata), tanto da meritarsi un applauso; il secondo un’esecuzione romanticamente toccante dell’aria d’amore a Liza nel III quadro, guadagnandosi del pari un applauso commosso del pubblico. Stupenda per recitazione e potenza vocale la Contessa di Elena Zaremba. (Paradossalmente quasi troppo potente, voglio dire poco senile, se si pensa a un’interpretazione di riferimento come quella di Martha Mödl che, a fine carriera, oramai anziana, interpretò il ruolo a Vienna nel 1992 in una storica produzione con la Freni, Atlantov e Leiferkus, sotto la bacchetta di Ozawa). Nella sua aria «Je crains de lui parler la nuit» (composta da Gréty, omaggio di Čajkovskij all’immortale tradizione operistica francese) la Zaremba crea uno tra i momenti più alti dell’opera, soprattutto, a ben guardare, considerando la scena, di poco precedente l’aria, in cui la contessa ricorda le sue glorie francesi. Godibilissima la Polina di Elena Maximova, dotata di una caldissima voce da mezzosoprano, corposa e seducente: il duetto con Liza e la sua malinconica aria del II quadro riescono divinamente, come pure lo stornello russo successivo. La Maximova si fa apprezzare anche come Bellosguardo, prestando la voce al pastore dell’intermezzo bucolico. Tutti i comprimari sono eccellenti: Vladimir Zaplechny (Čekalinskij), Mikhail Korobeinikov (Surin), Vladimir Reutov (Čaplickij e il cerimoniere), Gabriele Ribis (Narumov), Anna Viktorova (La governante), Magdalena Krysztoforska (Maša), Yuliya Poleshchuk (Prilepa). Ottimo il lavoro del coro e, in particolare, del giovane coro di voci bianche, che immagino avrà lavorato non poco per imparare (così bene) una parte in lingua russa.

La produzione è un allestimento nato in coproduzione tra diversi teatri: Welsh National Opera, Den Norske Opera, Teatro Comunale di Bologna e Canadian Opera Company. La regia è di Richard Jones, ripresa per l’esecuzione romana da Benjamin Davis. Molti momenti registici sono assai pregevoli: il frenetico movimento del coro che entra e esce in fretta, per esempio nella scena del temporale del I quadro o nella festa nel III; o la scena con la drag queen durante la canzone di Tomskij nell’ultimo quadro, che con la sua sfrontata carnalità impersona la decadente degenerazione che Jones ha pensato per questa produzione. (E potrebbe esserci un vago accenno all’intollerabile odierna situazione della più totale assenza dei diritti a tutela degli omosessuali in Russia?). Peccato che la regia qua e là si perda in qualche effettaccio – come il far morire Liza con una busta di plastica… – e risulti di tanto in tanto statica o poco patetica in relazione alla scena. Proprio un progressivo decadimento, una climax ascendente di degenerazione, è l’idea che impernia le scene (di John Macfarlane, curatore anche dei costumi) vagamente classicheggianti almeno negli interni, mentre i costumi sono marcatamente spostati nel novecento. Purtroppo, in generale, le scene risentono della moda – dettata soprattutto dall’endemica assenza di fondi per i teatri lirici – di essere eccessivamente spoglie: in particolare le scene all’aperto (I e IV quadro) sono caratterizzate da qualche panchina e un fondale dipinto dal vago sapore kandinskiano o pollockiano. L’idea di sfruttare una piccola parte del palco per gli interni, circondati da quinte nere, in ostentata prospettiva centrale, conferisce un senso di attufata stasi alle scene d’interno (a eccezione del gran ballo, a scena spoglia e giocato sulle coreografie registiche). La notazione del degrado è dovunque e ostentata, autentico fil rouge registico. Ma la scena più sensazionale è certamente quella del quadro V: una prospettiva aerea dall’alto mostra German allettato che si regge sulla parete scenica grazie a una pedana. Peccato poi rappresentare l’apparizione dello spettro della Contessa con un grosso scheletro spelacchiato, alquanto trash, certo lungi dall’essere terrificante – anzi marcatamente ridicolo! Un vero coup de théâtre è la scena dell’intermezzo bucolico durante il ballo in maschera: delle marionette bianche su un tavolo, mosse da marionettisti in tuta nera, tutti molto bravi, si muovono al ritmo del ballabile e danno vita alla voce dei cantanti, con un comico finale inatteso (la pastorella preferisce Montedoro, ma poi si dà all’alcool e – guarda un po’! – alle sale da gioco).

La serata è stata un autentico trionfo, decretato da numerosi applausi ai cantanti al proscenio e soprattutto all’adamantino Conlon.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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