L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Soave sia il vento

 di Luigi Raso

 

Si vena di malinconia, fra chiaroscuri, istanti dilatati e impalpabili, il ritorno di Riccardo Muti a Così fan tutte, che coincide anche con l'atteso ritorno sul podio del Teatro di San Carlo. Rifugge l'oleografia partenopea l'accurata regia di Chiara Muti, mentre nel cast, non troppo omogeneo, si impone l'ottimo Don Alfonso di Marco Filippo Romano.

NAPOLI, 2 dicembre 2018 - È l’opera dal volto più inafferrabile e complesso di Mozart a riportare, per l’inaugurazione della stagione lirica e di balletto 2018-19, Riccardo Muti al San Carlo.

Il suo ultimo, e fino ad oggi, unico impegno operistico al San Carlo risaliva al dicembre 1984, quando diresse un incandescente Macbeth, rimasto negli annali del teatro e nella memoria del pubblico del San Carlo. Dopo trentaquattro anni, dunque, il grande direttore napoletano sceglie un’opera ambientata a Napoli e che, pur nella sua sublime astrazione e inarrivabile perfezione, nelle intenzioni di Mozart costituisce probabilmente un omaggio agli stilemi e agli intrecci della gloriosa tradizione dell’opera buffa napoletana settecentesca: la Despina mozartiana è parente, neppur tanto lontana e non solo nell’assonanza del nome, della antenata Serpina pergolesiana; Don Alfonso ha i tratti di un disincantato signore napoletano, cinico e, forse, con un passato da gaudente. Così fan tutte è l’opera dell’inganno e del disinganno, l’opera più relativistica e nichilista di Mozart, nella quale alla fine si è costretti ad accettare la realtà sorridendo dell’amaro della vita: “filosofia” di vita più napoletana di questa non ce n’è.

La regia, firmata da Chiara Muti, e le scene di Leila Fteita immergono l’intreccio in una ambientazione atemporale, che non contiene - vivaddio! - alcun riferimento all’abusatissima oleografia napoletana; c’è il mare, ci sono dei gozzi a mo’ di alcova, ma mancano i riferimenti a Napoli, se non nelle pitture di viridaria pompeiani sui paraventi. L’impianto scenico trapezoidale ha pareti di specchi incrostati d’umidità, che riflettono e moltiplicano le identità dei protagonisti secondo i relativi punti di vista di chi li osserva: una scena animata da un’inarrestabile movimento e passaggio di figure/mimi che fanno da contorno ai personaggi, interagendo con loro, completandoli; silhouettes dal vago sapore strehleriano si riflettono sulla velo bianco del siparietto, come ombre uscite dalla lanterna magica.

La napoletaneità del Così fan tutte è, semmai, da ricercare nelle luce: in quella tersa e mediterranea che viene irradiata nel corso della vicenda e in quella delle suggestive penombre dei momenti più cameristici dell’opera, come il sublime quintetto “Di scrivermi ogni giorno...” , il terzettino “Soave sia il vento” o la seconda aria di Fiordiligi “Per pietà,ben mio, perdona”. Luce e ombra fanno da pendant a disinganno e inganno, nell’opera più simmetrica mai scritta, e il gioco delle luci, curate da Vincent Longuemare, è sempre appropriato e perfettamente aderente al discorso musicale.

Un mondo in perenne evoluzione è nella filigrana di questo Così fan tutte: tutto è incostante e mobile, come le due coppie di innamorati, i quali, da poco più che adolescenti, dopo essere stati sottoposti all’esperimento ordito da Don Alfonso, si ritroveranno uomini e donne.

A ricordare la collocazione settecentesca della vicenda ci pensano i bei costumi di Alessandro Lai, eleganti nella loro essenzialità e ben integrati nella visione di moderata astrazione dal reale della visione registica.

La recitazione - e sappiamo quanto teatro c’è nei testi di Da Ponte - è estremamente curata in ogni suo aspetto, nelle espressioni del volto e nella gestualità degli interpreti: una teatralità brillante, senza affettazioni o sterili gigionismi che si giova di una compagnia di disinvolti attori-cantanti. Merito della regista è quello di aver saputo dipanare una vicenda, di certo non paragonabile alla folle journée  delle Nozze di Figaro, né “All’orsù, spicciati presto!” che innerva tutto il Don Giovanni, senza mai cadere nell’immobilismo, grazie anche alla sapiente distribuzione in scena del coro e dei figuranti a corredo dei sei protagonisti.

Una produzione, questa della Muti, che innesta elementi di originalità (la mongolfiera dalla quale Cupido scaglia i suoi dardi, una giostra, farfalle di carta, i vestiti delle spose illuminati quasi come alberi natalizi) in un impianto sostanzialmente “tradizionale”: per chi volesse (ri)vederla l’appuntamento è per il 2020 alla Wiener Staatsoper.

L’aspetto di maggiore interesse dello spettacolo inaugurale era riposto nella concertazione di Riccardo Muti.

E l’attesa è stata ampiamente soddisfatta, ben oltre lo scontato battage pubblicitario per un “evento” come questo e, soprattutto, malgrado la rimodulazione (verso l’alto, molto in alto) e conseguente civile polemica - a ragione, ad avviso di chi scrive - sulla stampa locale e sui social sull’elevato prezzo dei biglietti, che sembra aver causato qualche screzio nel rapporto tra gli appassionati d’opera e la dirigenza del teatro e che, di fatto, ha escluso molti veri appassionati non “presenzialisti” dal poter assistere a questo spettacolo.

Chi, come me, ha iniziato ad amare il Così fan tutte, così carnale, meravigliosamente “italiano”, dell’edizione discografica diretta da Muti a Salisburgo nel 1982, si sarà stupito come sia cambiato l’approccio interpretativo del direttore napoletano: oggi la lettura di Muti è venata da una sottile e malcelata malinconia di fondo, i tempi si sono dilatati, il respiro musicale della partitura si è allargato e a tratti si fa impercettibile, soprattutto nel finale. Tutto scorre serenamente, fluidamente; Muti fa avvertire un sano distacco dalle passioni dei protagonisti, i quali sono osservati da lontano, attraverso l’occhio saggio e commiserevole di Don Alfonso.

Il quintetto e il terzettino dell’atto I, immersi in un’atmosfera rarefatta, di attesa, increspata solo dai refoli sonori degli archi, trasmettono grandi emozioni, riuscendo a rendere così veritiero il dolore di Fiordiligi e Dorabella che quasi ci si dimentica del prossimo amaro epilogo. L’implorazione finale di Fiordiligi e Dorabella, tanto dilatata nell’agogica, come ha dichiarato lo stesso Muti in un’intervista televisiva, vuole alludere al canto disperato delle Sirene nel vano tentativo di irretire Ulisse. La fusione tra canto e orchestra è, effettivamente, di rara ed irresistibile seduzione, grazie a quel canto che da lontano sembra spargersi e aleggiare nella sala incantata: il suono dell’orchestra del San Carlo è morbido, avvolgente, duttile come raramente si ascolta. La compagine sancarliana non è nuova a prestazioni di ottimo livello, ma in questo Così fan tutte si presenta in stato di grazia in tutte le sezioni, non avendo nulla da invidiare a quelle orchestre, molto più blasonate, che hanno la musica di Mozart nel loro corredo genetico.

Preciso e perfettamente integrato nel raffinato affresco sonoro è il coro diretto da Gea Garatti Ansini, per il quale Muti durante le prove ha speso parole d’encomio.

Da queste squisitezze e raffinatezze orchestrali, tuttavia, è molto lontana la compagnia di canto. Peccato che i sei protagonisti rispondano solo in parte alle sollecitazioni che provengono dal golfo mistico: cantanti complessivamente buoni e affiatati, ma in alcuni latita quella grazia vocale e stilistica che il canto di Mozart necessariamente richiede.

La Fiordiligi di Maria Bengtsson ha figura avvenente, voce dal volume forse esiguo per una sala grande come quella del san Carlo; il canto è corretto, qualche acuto un po’ fisso, il timbro, seppur suggestivo, appare troppo spesso velato, nel registro basso troppo spesso la voce si svuota. L’interprete è misurata, la linea di canto raffinata, ma a tratti eccessivamente poco empatica. Corrette le colorature dell'aria di paragone “Come scoglio”; troppo evidente il modello di Elizabeth Schwarzkopf nel sublime Rondò “Per pietà, ben mio, perdona”: ma quando si imita, inevitabilmente, si finisce per imitare i difetti, più che i pregi. Mistero della lirica.

Più spigliata e intensa è la Dorabella di Paola Gardina, che sfoggia un timbro brunito ed è dotata di buona tecnica che le consentono di delineare un “È amore un ladroncello” convincente nella sua sbrigatività.

Emmanuelle de Negri è una Despina che promana simpatia, molto musicale, pur nella ordinarietà e correttezza vocale.

Passando al reparto maschile, il Guglielmo di Alessio Arduini è dotato di voce dal bel timbro ricco di armonici, baldanzoso, tuttavia tende a sfumare troppo poco, optando per un’emissione costantemente orientata sul forte o mezzoforte.

Molte riserve sul Ferrando di  Pavel Kolgatin, la cui tecnica di canto e l’emissione perennemente sforzata, poco o nulla appoggiata sul fiato, le troppe note calanti poco si addicono allo stile vocale mozartiano. Il timbro è abbastanza scuro, eccessivamente gonfiato nei centri, appesantito da un’emissione troppo sforzata: la sua “Aura amorosa” ha davvero poco del “dolce ristoro” da porgere al cuore. Va meglio la seconda aria “Tradito schernito”, la quale non richiede un infallibile appoggio sul fiato come la precedente.

Senza dubbio il migliore del sestetto vocale protagonista è il Don Alfonso di Marco Filippo Romano: voce ricca di armonici, rotonda, buona tecnica di emissione, bel timbro, dizione scolpita e verve scenica fanno del baritono siciliano uno dei più interessanti e dotati interpreti dei ruoli buffi.

Con la morale finale, quel piccolo inno alla ragione, lo spettacolo finisce: l’incantesimo sonoro evapora e prorompono applausi fragorosi da parte della sala graditissima, con applausi ritmati quando Muti si presenta sul palcoscenico. Un trionfo.

Sulla seconda balconata è esposto uno striscione “Maestro Muti, torna!”: non è certamente paragonabile - per nostra fortuna - a quel disperato “Vogliamo Toscanini” apparso sulle pareti delle Scala nell’aprile del 1946, tuttavia il Così fan tutte diretto da Muti nella sua città sembra aver ricomposto una frattura (per l’opera; i concerti sinfonici sono stati molto più frequenti) rimasta aperta per ben trentaquattro anni. Troppi, decisamente troppi.

foto Silvia Lelli


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