L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Quando l’opera si confronta con il mito

 di Giulia Vannoni

La tragedia lirica Œdipe, uno dei capolavori del Novecento, ha inaugurato il Festival Enescu di Bucarest con una grande direzione di Vladimir Jurowski.

BUCAREST, 2 settembre 2017 – Uno dei capolavori teatrali del Novecento, che per insondabili motivi è quasi sconosciuto in Italia, dove se ne ricorda un solo allestimento a Cagliari nel 2005. Eppure Œdipe di George Enescu, andato in scena per la prima volta con grande successo a Parigi nel 1936 (ma dopo una ultraventennale gestazione), è una delle più mirabili costruzioni operistiche del secolo scorso: in primo luogo per l’emblematica scelta di un soggetto, che i bei versi francesi di Edmond Fleg dedicano al mito di Edipo, topos della neonata psicanalisi; poi per una musica applicata a un materiale emotivamente incandescente, dove Enescu, attraverso una personalissima commistione linguistica, sconfina dalla grande lezione wagneriana alla modalità. Tenendo però, allo stesso tempo, lo sguardo rivolto sia alla musica francese – a Parigi era stato allievo di Fauré – sia al multiforme folclore slavo e rumeno in particolare.

Questa ‘tragedia lirica in quattro atti e sei quadri’ ha inaugurato il Festival Enescu, che si tiene – con cadenza biennale – a Bucarest dal 1958, istituito tre anni dopo la scomparsa del compositore. La versione oratoriale, date le caratteristiche sinfoniche della prestigiosa rassegna, non ne ha però dimidiato la ricezione. L’ausilio offerto dalle eleganti animazioni di Carmen Lidia Vidu, proiettate su un grande schermo dietro all’orchestra, permetteva poi di cogliere gli snodi cruciali della vicenda dell’Edipo re di Sofocle, che il libretto fa precedere da un prologo, in cui viene spiegato l’antefatto, e seguire da una sorta di epilogo che sintetizza il meno noto Edipo a Colono.

Sul podio della London Philharmonic Orchestra, il russo Vladimir Jurowski, anche direttore artistico del Festival, ha stabilito con il magnifico gruppo strumentale inglese un’intesa perfetta, collaudata – del resto – nel corso del tempo (vi lavora dal 2001 e oggi ne è direttore stabile). Con gesto sobrio ed elegante, Jurowski ha ottenuto precisione millimetrica da ogni sezione, evidenziandone duttilità, compattezza e una sbalorditiva elasticità nel rispondere a ogni sollecitazioni della sua bacchetta. Non finisce di sorprendere, nel corso dell’ascolto, la timbrica ricchissima e inesausta, che si aggiunge a una varietà dinamica mai prevaricatrice nei confronti delle voci. Bisogna sottolineare che il direttore era anche assecondato da una buona compagnia vocale – formata da glorie internazionali e meno noti cantanti dell’est – chiamata a interpretare i quattordici personaggi, tutti definiti molto accuratamente nella partitura, e che si avvalgono di una scrittura vocale che spazia dallo Sprechgesang fino agli echi delle liturgia ortodossa.

Nel ruolo del protagonista, il baritono francese Paul Gay: vestito di bianco nella prima parte (quasi una reminiscenza del “puro folle” wagneriano), con pantaloni rossi color sangue, nella seconda, abbinati a una giacca scura, ha affrontato con grande convincimento e sicurezza una scrittura di notevole estensione, come si addice a un personaggio che affonda negli abissi più cupi ma è capace di ascendere ai vertici della catarsi. Disegna così un personaggio che si oppone con forza alla sorte assegnatagli (del resto l’interrogativo della Sfinge qui è modificato e la soluzione dell’enigma diventa “l’uomo che resta sempre più forte del suo destino”), disperatamente titanico eppure riconciliato al momento della propria fine.

A una star di oggi e a una del passato erano affidati due dei quattro ruoli femminili. Affacciata a un palco della enorme Sala del Palatului, la bravissima Ildikó Komlósi ha affrontato con voce timbratissima la scrittura contraltile – solcata da risvolti sinistri – della Sfinge: un intervento relativamente breve, ma molto significativo sul piano drammatico. La veterana Felicity Palmer, coinvolta per un piccolo cammeo, ha interpretato la regina Merope, madre adottiva di Edipo, con emissione ancora piuttosto ferma e voce penetrante. Ruxandra Donose, invece, come Iocasta è riuscita ad essere più convincente nei panni di regina trionfante che di madre inorridita e devastata. Unico soprano del quartetto femminile, infine, Gabriela Iştoc ha impresso accenti teneri ed espressivi alla giovane Antigone.

Quasi a sottolineare l’alterità del suo sguardo premonitore, molto felice è stata l’idea di affidare il personaggio di Tiresia al nero Sir Willard White: il basso inglese ha saputo infondere tratti disincantati alla figura dell’indovino che si fa interprete di una sorta di coscienza collettiva. E se il baritono Christopher Purves è apparso un Creonte inadeguato per un’emissione faticosa e scompaginata, si può ancora apprezzare lo slancio tenorile di Graham Clark – altro illustre veterano – come Pastore, personaggio che sembra riecheggiare il suo omologo nel Tristano. Nella regale tracotanza di Laio s’imponeva la sicurezza del tenore Marius Vlad Budoiu, mentre l’ottimo baritono coreano In Sung Sim, nei panni dell’araldo Forbas, sfoggiava un’emissione tonda e una compatta timbratura.

Corretto il Gran Sacerdote del basso Mischa Schelomianski, pacifico e rassicurante il Teseo del baritono Boris Pinkhasovich, un po’ coperto dall’orchestra invece il Guardiano di Maxim Mikhailov. Ottimo, infine, il contributo del Coro Filarmonico “George Enescu”, integrato anche da quello di voci bianche della Radio (diretti rispettivamente da Ion Iosif Prunner e Voicu Popescu). Quasi tre ore di musica che passano senza mai un cedimento d’intensità.


 

 

 
 
 

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