L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Scarpia non cede

 di Antonino Trotta

Nonostante qualche vuoto di memoria, Carlos Álvarez s’impone nell’ultima recita dell’ottima Tosca allestita dal Teatro Carlo Felice di Genova. Nella cornice del consolidato lavoro di regia, musicale e scenica, firmato da Valerio Galli e Andrea Cigni, ben fa anche Maria Josè Siri nel ruolo eponimo.

Genova, 12 Maggio 2019 – «Scarpia che cede? La prima sua (dis)grazia è questa!». Sì, Carlos Álvarez, Scarpia per una sola delle recite – quasi sicuramente senza prove – di Tosca al Carlo Felice di Genova, s’è dimenticato la parte, o più precisamente, un bel po’ di battute del terrificante secondo atto. Certo, per un personaggio  senza arie chiuse e costruito, magnificamente, sul crinale che separa il canto dalla recitazione, le mende della memoria potrebbero risultare assai compromettenti per lo sviluppo. Eppure Álvarez tiene sempre teso l’indistruttibile filo del discorso, febbrile anche laddove il materiale testuale evapora in silenzi o vocalizzi, tessuto e ricamato in un’interpretazione che nasce dalla purezza del canto e si finalizza nella teatralità del gesto, magnetico come poche volte si ha l’occasione di vedere sul palco. Insomma Scarpia non cessa mai di essere Scarpia, nemmeno per un istante. D’altronde Álvarez, vero fuoriclasse, ha carisma da vendere: quella signorilità congenita che tutto tacita ma tanto lascia intravedere, ora tradotta nell’elegantissima emissione, ora insinuata nel gioco scenico di violenza e seduzione, cavalleria e prepotenza, pretese, concessioni, inganni, si ripropone e si rinnova di immagine in immagine come le peregrinazioni tonali del leitmotiv che gli fa da ombra. Il suo barone ha l’anima del nobiluomo consumato dal potere, galante e sicuro, sfacciatamente sicuro, sicché dinnanzi all’esultanza del condannato o i dinieghi della primadonna non sente nemmeno il bisogno di ergersi a più imponente statura: la linea di canto rimane lì, perfettamente scolpita in un fraseggio sanguigno e volitivo, tanto più minaccioso e insidioso quanto composti e distaccati si fanno i suoi accenti. Scarpia non deve chiedere per ottenere, figuriamoci agitarsi più di tanto. La voce, poi, timbrata e rotonda, proiettatissima, costringe il pubblico a cedere al fascino di questo concentrato di malvagità e quasi dispiace vederlo stramazzare al suolo, agonizzante – anche qui la «scenica scienza» è da manuale –, mentre un ignobile squillo di cellulare rovinava l’intera chiusura dell’atto.

Il confronto con un simile animale da palcoscenico penalizza, almeno sul piano del coinvolgimento emotivo, Tosca e Cavaradossi, di cui evidenzia i tratti più manierati della recitazione. La prima è Maria Josè Siri, apprezzata interprete pucciniana e cantante di rassicurante tecnicismo: la prova procede spedita senza angolosità, piuttosto orientata verso la ricerca di spigolature vocali che rivelino quanta delicatezza si cela nella scrittura di certe parti pucciniani, approntati spesso troppo frettolosamente. La pienezza della voce, quando poi sapientemente espansa in un opulento orizzonte dinamico, risuona goduriosa alle orecchie: sciabolante e baldanzoso il registro acuto, morbido quello centrale, intelligenti gli affondi al grave, la Siri ha a disposizione tutte l’argilla per plasmare una Tosca scultorea e minuziosa. Innegabili i momenti davvero belli: basta la frase d’ingresso – «Perché chiuso?» –, concitata e irrequieta, per immergersi nella dimensione di claustrofobica gelosia in cui la donna relegherà la primadonna, siglandone definitivamente la condanna. Poi però il personaggio perde un po’ di definizione e talora si avverte l’assenza dell’articolazione espressiva della parola, del recitar cantando, che alla fine riduce all’attesissimo «Vissi d’arte», ad esempio, a un impeccabile esercizio di canto.

Senza infamia né lode il Cavaradossi di Diego Torre. L’involo in alto rimane macchinoso, così come avara si dimostra la tavolozza di colori – c’è una sola sfumatura, anche un po’ strozzata, in «E lucevan le stelle». Però il personaggio, decisamente più nelle sue corde – molto più del Manrico di Torino, dove lo abbiamo già incontrato quest’anno [leggi la recensione] –, c’è, sebbene parzialmente, e si fa sentire. Sono sufficiente allora un generoso dosaggio di volume, qualche gigionata prevedibile e una caratterizzazione tutto sommato ordinaria per suscitare sincero entusiasmo nel pubblico, o almeno tale da spingerlo a chiedere un bis dopo la seconda aria, per fortuna non concesso.

Di regia teatrale e musicale si è scritto già in occasione delle recite del circuito lombardo (Brescia e Pavia), culla dell’allestimento chiamato a sostituire quello previsto, in origine, di Davide Livermore. Sarebbe un torto alla charme dello spettacolo firmato da Andrea Cigni non riconoscere che l’impianto scenico, divorato stavolta dall’enorme boccascena del Carlo Felice – per l’occasione rimpicciolito con pannelli e tendaggi neri –, abbia perso un po’ di appeal. Sortivano tutt’altro effetto le scenografie in prospettiva di Dario Gessati quando, quasi estensione delle pareti del teatro, si intersecavano in un punto di fuga per abbracciare l’intero spazio d’azione, accentuando quindi l’atmosfera di soffocante pressione, soprattutto nel secondo atto. Rimane inalterato il fascino dello sfaccettato gioco di Luci di Fiammetta Baldisserri, così come intonsi si conservano la cura del palcoscenico e la bellezza dei costumi di metà Ottocento – leggermente diversi, si ricordava un primo abito giallo per Tosca, qui invece azzurrino – disegnati da Lorenzo Cutùli.

In Tosca Valerio Galli non stanca mai: ancora sul podio genovese dopo il successo del recente dittico Rapsodia Satanica/Gianni Schicchi [leggi la recensione], alla guida dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice che pur ha mostrato qualche ruvidezza timbrica – metallici i violoncelli nel celebre quartetto del terzo atto –, il direttore viareggino ribadisce come questo tipo di repertorio debba essere eseguito. Non si estinguono le esplosioni sonore, le perverse escalation ritmiche, gli squarci lirici di amoroso abbandono o in sostanza tutti quegli elementi che se mal gestiti rischiano di stufare dopo poche battute ma, tra le mani di Galli, questi si combinano con formidabile armonia in una narrazione avvincente, da vero e proprio poema sinfonico, a fanno da impalcatura robusta e chiave d’accesso alla cinematografica drammaturgia di Puccini. Poi Galli l’opera la conosce ella perfezione e, allorquando servisse, sa essere persino un prontissimo suggeritore. Chapeau.

Alti e bassi nel comprimariato: Didier Pieri, Spoletta, si lascia ben apprezzare per smalto e accuratezza nel fraseggio; più in difficoltà John Paul Huckle, Angelotti, abbastanza in affanno. Completano correttamente il cast Matteo Peirone, spassoso Sagrestano, Ricardo Crampton (Sciarrone), Alessio Bianchini (Un carceriere), Eliana Uscidda (Pastorello). Buona la prova del Coro e del Coro di Voci Bianche del Teatro, istruiti rispettivamente dai maestri Francesco Aliberti e Gino Tanasini. Successo e acclamazioni per tutti.

foto Marcello Orselli


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