L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La commedia è finita

di Roberta Pedrotti

L'abbinamento fra The Circus di Charlie Chaplin e Pagliacci di Leoncavallo funziona bene nella costruzione drammaturgica di Alessandro Talevi, non altrettanto nella bacchetta di Timothy Brock, che della musica per il cinema muto è fra i massimi esperti al mondo mentre risulta sotanzialmente estraneo alle esigenze tecniche e poetiche dell'opera.

MACERATA, 5 agosto 2022 - Non era difficile prevedere che, nel cartellone del Macerata Opera Festival tracciato sul fil rouge del rapporto fra musica e grande (o piccolo) schermo, l'appuntamento con The Circus (1928) non avrebbe deluso. Il genio di Charlie Chaplin bastava come garanzia, l'opportunità di godere del film muto con la colonna sonora eseguita dal vivo è sempre motivo di maggior soddisfazione. Semmai ci si poteva chiedere come avrebbe funzionato nella vastità dello Sferisterio, come si sarebbe inserito in rapporto al resto del programma, ma sulla qualità della pellicola non c'erano dubbi. E il risultato ha superato le aspettative.

Film premiato ma meno fortunato di altri, The Circus declina elementi tipici dell'universo di Chaplin con una profondità, una leggerezza e una poesia che stringe in un abbraccio indissolubile commozione e risate. La trama è delle più semplici: il Vagabondo viene assunto come inserviente in un circo perché – a sua insaputa – le sue goffe irruzioni sono il piatto forte dello spettacolo, la maggior attrattiva per il pubblico; sboccia una tenera amicizia con un'acrobata equestre, per il Vagabondo sarebbe qualcosa di più ma non per la ragazza, che si innamora ricambiata di un nuovo funambolo. Alla frustrazione, a una rivalità senza speranza succede la solidarietà, il Vagabondo propizia l'unione fra i due e non segue la carovana, continuando il suo girovagare solitario. In ques'arco narrativo non c'è gag che non si inserisca alla perfezione, con tempi comici e mimica che divertono anche a distanza di un secolo, non c'è iato fra i registri, fra la risata istintiva slapstick e il lirismo più delicato. La qualità tecnica della fotografia è sbalorditiva (e chapeau ancora una volta alla Cineteca di Bologna per restauro e conservazione dei materiali), così come lo è la capacità di Chaplin di integrare vari livelli di lettura, compreso quello politico: prende coscienza di essere sfruttato, chiede e ottiene di essere pagato per il valore che produce a vantaggio del circo, usa il suo potere contrattuale per tutelare la ragazza. Si intravede, nella rivendicazione con il proprietario perfino un pugno chiuso levato per un istante, ci ricordiamo che in Tosca si era fatto riferimento ai guai di Chaplin con McCarthy. [Macerata, Tosca, 22/07/2022]

E poi, naturalmente, c'è la musica, e che musica! Il geniale attore/regista ancora non si avventura in una composizione integralmente originale, ma assembla e arrangia temi già noti con arguzia e maestria. Albeggia con Grieg e per i clown si ascolta anche la Marcia dei gladiatori di Julius Fučík, ma a questi riferimenti quasi automatici, oggettivi, se ne accostano altri ironici, come il numero del funambolo Rex che si apre con il preludio al terzo atto di Lohengrin e si conclude su danze viennesi, si colgono quelle che sembrano intuizioni profetiche, come la Marcia funebre per una marionetta di Gounod qualche lustro prima di Alfred Hitchcock presenta, se non fosse una possibile citazione dell'uso dello stesso pezzo in Aurora di Murnau (1927). E, poi, c'è molta musica proveniente dai Pagliacci, ricordo giovanile di Chaplin, che avrebbe assistito all'opera di Leoncavallo proprio in uno spazio adibito anche all'arte circense, ma anche preciso riferimento drammaturgico (il tema di “Vesti la giubba”, per esempio, compare quando il Vagabondo si prepara a esibirsi dopo aver scoperto che la ragazza ama Rex). Nel destreggiarsi in tale materia, così varia per stile, nota ma riarrangiata all'uopo, la Filarmonica marchigiana dimostra tutta la sua duttilità e tutto il suo virtuosismo, ammirevole prontezza e brillante partecipazione. A Timothy Brock sul podio va riconosciuto subito il merito filologico di aver riportato alla luce la prima, finora inedita, stesura della colonna sonora e di averla proposta con la competenza di una delle maggiori autorità in materia, esperto e specialista come forse nessun altro della musica di Chaplin.

Purtroppo, se il cinema è il mondo di Brock, non altrettanto di può dire dell'opera e, nella seconda parte della serata, i Pagliacci spengono un po' l'entusiasmo che era salito alle stelle. L'accostamento non è affatto peregrino e non solo per via delle citazioni previste nel film: nel rivedere il suo precedente allestimento per lo Sferisterio, il regista Alessandro Talevi inventa una regia tutta nuova, come nuovi sono le scene in collaborazione con Madeleine Boyd e i costumi di Anna Bonomelli. Il dramma privato nella compagnia di Canio corrisponde alla crisi dello spettacolo itinerante, soverchiato dall'ascesa del cinematografo. Un accostamento felice, toccante, perfino, quando si vede il pubblico sempre più annoiato, distratto, che abbandona la vecchia commedia, ma poi torna ad affollarsi quando le cose si fanno serie e “par vera quella scena” (già si affaccia la “tv verità” con la sua pornografia del dolore?). Peccato, allora, che la bacchetta di Brock in questo punto come in altri si mostri insensibile alle ragioni del dramma e non faccia sentire lo stacco fra il meccanismo lezioso delle maschere e l'irruzione della realtà. Peraltro, non è questo l'unico problema, perché se orchestra, coro e solisti – al pari del team registico – sono di per sé assai validi, il coordinamento è sempre appeso a un filo in evidente assenza di un punto di riferimento. Il coro e l'orchestra si perdono e si riacciuffano da sé (bravo, bravissimo Martino Faggiani), l'articolazione del cantabile e del canto di conversazione con Brock non sembrano mai partire dal senso della parola, della prosodia, del naturale sviluppo melodico. Difficile, quindi, che possano esprimersi al meglio, e qualche tensione è palpabile, ed è un peccato, perché Fabio Sartori ha tutte le carte in regola per essere un ottimo Canio, così come Rebeka Lokar, che nemmeno un anno fa ci incantava nella ben più impervia Fanciulla del West, messa più a suo agio potrebbe senz'altro apparire come una Nedda di lusso. Fabian Veloz, sostituto del previsto George Petean, non brilla nel legato, ma non ci sentiamo di fargliene una colpa, come non imputiamo a Tommaso Barea, bella voce e ben timbrata, se nel duetto con Nedda la sensualità latita. David Astorga non è il più morbido degli Arlecchini, ma è ben adeguato agli spazi dello Sferisterio. Alessandro Pucci e Andrea Cutrini completano il cast nei panni dei due contadini.

Alla fine cordialità per tutti, sperando che le cose si assestino, perché questo dittico ha tutte le carte in regola per funzionare benissimo nell'abbinamento dei titoli, nella regia, nelle qualità di coro e orchestra, nel cast. Forse la drammaturgia sarebbe ancor più logica facendo seguire il film all'opera, così da esplicitare le citazioni in senso cronologico e il passaggio dallo spettacolo itinerante al cinema, ma è cosa di poco conto rispetto allo sbilanciamento nella concertazione fra la perfetta conoscenza di un genere e la scarsa dimestichezza con l'altro.


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