Debussy e Busoni
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia torna il suo direttore emerito, Antonio Pappano, accolto dal calore che il pubblico gli ha sempre tributato. In programma le evanescenti atmosfere dei Trois Nocturnes per coro femminile e orchestra di Claude Debussy e l’imponente Concerto per pianoforte, orchestra e coro maschile in do maggiore op. 39 di Ferruccio Busoni, eseguito magistralmente da Vadym Kholodenko.
ROMA, 31 gennaio 2025 – Pur avendolo fatto miriadi di volte, Antonio Pappano appare sempre un po’ emozionato quando deve parlare davanti ad un pubblico cui è molto affezionato: quello romano dell’Accademia. “Caro pubblico…” e il direttore spiega cosa andremo a sentire: invita a non paragonare i Trois Nocturnes di Debussy, attenti alle atmosfere e non allo sviluppo musicale, a quelli di Chopin, quanto piuttosto alle soluzioni delle avanguardie pittoriche fin de siècle (impressionismo e pointillisme). Di Busoni parla a lungo: grande teorico, filosofo, prosatore, eminente conoscitore di Bach, italiano trasferitosi nel cuore dell’avanguardia tedesca (Berlino), Busoni è un sinolo di contrasti estetici, innanzitutto fra universo musicale italiano e tedesco. Pappano spagina le fonti a cui Busoni si è ispirato per il Concerto per pianoforte: Liszt, Berlioz, ma anche sonorità verdiane; il coup de théâtre, poi, della presenza di un coro maschile, che intona un inno ad Allah scritto da un poeta danese. E pensare, conclude Pappano, che i due pezzi sono praticamente contemporanei (primi anni del ‘900), eppure così diversi.
Il primo tempo è dedicato all’esecuzione di uno dei capolavori di Debussy, i Trois Nocturnes. L’orchestra è in forma smagliante: Nuages testimonia l’impressionante sensibilità di Pappano, il quale, con mano delicata, tiene contenuto il volume orchestrale, creando un suono impalpabile, soffice, etereo nel gioco cromatico di impasti, dove gli archi procedono malinconicamente attraverso i vapori dei legni. Da queste volute di suoni si passa a Fêtes. Qui Pappano genera ritmo e ispessisce il volume: gli ottoni punteggiano il tutto di atmosfere giocose, il materiale pare avvitarsi su sé stesso, ma si concede aree più contenute, dove gli strumenti evocano ricordi quasi fiabeschi. Il più atmosferico dei tre è l’ultimo, Sirènes. Il direttore mostra bacchetta vellutata, mentre il coro intona quasi folate di vento. Intensità e colori del tessuto orchestrale sono dosati scrupolosamente (splendidi gli interventi del corno); forse, il coro avrebbe potuto mantenere un volume più contenuto, curando maggiormente l’impasto delle voci.
Il secondo tempo è dedicato al Concerto per pianoforte di Busoni, un’opera titanica nella sua concezione e struttura. Non avrebbe potuto scegliere partitura più impervia per debuttare nei cartelloni dell’Accademia, eppure Vadym Kholodenko lo fa con grande signoria, possesso dei mezzi tecnici, suonando tutto a memoria (il che, per Busoni, non è scontato). L’intesa fra orchestra, direttore e interprete è ottima, ipnotizzando il pubblico all’ascolto di un brano che, se squilibrato, potrebbe risultare incredibilmente farraginoso, oserei dire indigesto. Basti l’esempio del I tempo, di incredibile complessità, a dare il senso della cifra stilistica di questo Busoni. Pappano dirige minutamente ogni passaggio, ogni cambio agogico, destreggiandosi in un’orchestrazione quanto mai articolata; Kholodenko fraseggia gli accordi che si verticalizzano sulla tastiera; il movimento tende a sciogliersi, poi, in atmosfere eteree (dove l’interprete è chiamato ad uno sforzo cromatico notevole); si inalbera, infine, in una scrittura drammatica, lisztiana: l’orchestra ispessisce la fibra sonora, gli ottoni sovente esprimono un dettato epico, titanico, memore di soluzioni mahleriane. Nel II tempo il pianoforte emerge intonando una melodia dal carattere giocoso, che, però, cangia in una miriade di soluzioni, costringendo il solista ad alternare freschezza e peso sonoro: il modello è, ancora, il Liszt delle varie parafrasi operistiche, ma pure quello sinfonico e concertistico. Il III movimento ha un carattere solenne; Kholodenko intona con vibrante intensità passaggi estatici, che si increspano in virtuosismi, ma si imperniano tutti su un tema che sprigiona una solennità paragonabile a quella di alcuni passaggi mistici del Parsifal. Il contrasto non potrebbe essere più vistoso con il IV movimento, dove Pappano e il solista si gettano in un microcosmo di temi popolari, musicalmente galvanizzati (con sonorità che anticipano Šostakovič). Pulizia, precisione, timing sono essenziali: Pappano deve gestire una massa di interpreti che segue una partitura che si fa capricciosa, volubile, verticalizza facilmente, anela ad un titanismo ritmico e popolareggiante. L’ultimo movimento, il V, è quello che più si armonizza alla contemporaneità di Busoni: un misticismo evanescente e simbolico trasuda dalle pagine di questa sezione, immersa nei vapori musicali di inizio novecento. Il coro di voci maschili, intonante un “Inno ad Allah” tratto da Aladino o la lampada magica del danese Adam Gottlob Oehlenschläger, si profonde ottimamente in frasi dal carattere austero, inargentate dal procedere ipnotico del pianoforte, che intona accordi che girano e rigirano su loro stessi – una sorta di pedale d’organo scomposto, il che si adatta bene, naturalmente, ad una scrittura corale che evoca sonorità sacre. Nel finale, orchestra, coro e solista ispessiscono il suono, fino ad un guizzo brillante, a testimonianza del fatto che l’eclettismo è la chiave essenziale del Concerto per pianoforte di Busoni. Pappano, maestranze e Kholodenko sono subissati di meritati applausi.
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