L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I volti nella fontana

di Sergio Albertini

La ripresa dell'opera dimenticata di Giuseppe Mulè La monacella della fontana a Cagliari si avvale di una lettura musicale di alto livello che pare realizzare un'impresa impossibile, salvandola con cura minuziosa da eccessi e manierismi. Di contro alcune scelte della direzione artistica (su tutte quella di proporre una partitura tanto breve senza abbinarla ad altri brani) non aiutano e il pubblico latita.

L'autore

L'opera

Le esecuzioni della Monacella

Altre opere di Mulè

La ripresa a Cagliari nel 2025

La storia e il testo

Giuseppe Mulè. Nasce a Termini Imerese, mezz'ora da Palermo oggi. Non so quanto ci volesse, con carrozza, nel 1885, l'anno in cui nacque. A Palermo ottenne il diploma di violoncello al Conservatorio Bellini (ora rinominato Scarlatti). E lo strumento gli donò in qualche modo l'unico vero successo quando, nel 1903, diciottenne, non ancora completati gli studi, compose un Largo per violoncello e pianoforte. Quelli della mia generazione (una generazione ormai 'vecchia' per l'anagrafe) se lo ricordano, perché per anni, in una trascrizione per violoncello e archi, fu sigla della rubrica del santo del giorno in apertura delle trasmissioni dapprima Eiar, poi Rai. La pagina era stata composta per le nozze del fratello Diego, ma dedicata al proprio protettore marchese Schirò.

Gli studi di conservatorio proseguirono con la composizione col maestro Guglielmo Zuelli, emiliano, che nel 1884 aveva vinto il primo premio al Concorso Sonzogno per atti unici di esordienti con La fata del Nord, opera di argomento fantastico, l'unica che godette di una esecuzione. A quel concorso era stata presentata anche la prima opera di Puccini, Le Villi, che non aveva vinto, ma non era stata neppure inclusa tra le cinque (su ventotto) considerate degne di menzione. A Palermo Zuelli era insegnante di composizione e divenne poi direttore del Conservatorio nel 1894. Anche Mulè in seguito ne divenne direttore (dal 1922 al 1925). In quell'intervallo, nel 1923, si ebbe al Verdi di Trieste la prima della Monacella della fontana.

La monacella della fontana. Un atto unico. Quattro solisti. Il coro. Una grande orchestra. Siamo nelle campagne di Monreale, nei pressi di Palermo. Le campagne, assolate e riarse, soffrono di una devastante siccità. I mietitori, che aprono con il loro sconfortato canto l'opera, lamentano la carestia. “Un poco a sinistra una grande fontana bizzarramente tagliata nella roccia piove nella vasca decorata di muschio e di nenufari”, descrive il libretto. Una creatura fantastica, la 'monacella', promette “oro e fiori, fiori ed oro” a chi, assieme a lei, scenderà all'interno della fonte per cercarvi fortuna. Marù, innamorata del suo Pedru, cede alle lusinghe della creatura fantastica che le promette oro per celebrare degnamente le sue nozze e. assieme, risollevare il paese dalla povertà. Pedru, a cui Marù racconta l'episodio, la ritiene vittima di un sortilegio, mentre i compaesani, con delirante entusiasmo, invocano il suo sacrificio. Si allontana assieme al fantasma della monacella, sprofonda assieme alle due anche la fonte e per incanto ecco lo sbocciare di spighe di grano e papaveri.

Le esecuzioni della Monacella della fontana. Dopo la prima triestina, in cui l'opera di Mulè venne associata a Il segreto di Susanna di Wolf-Ferrari, il compositore si vide assegnare un premio di lire 25.000 da una commissione nominata dal Ministero della Pubblica Istruzione composta da Mascagni, Puccini, Cile e Nicola d'Atri. Quest'ultimo nel 1901 partecipò alla fondazione del Giornale d'Italia curando la rubrica musicale per quindici anni. Dal 1914 al 1916 fu assunto come segretario particolare del Consiglio dei Ministri, Gabinetto Salandra. Durante i suoi anni di attività si impegnò molto per ravvivare il movimento musicale in Italia, incoraggiando e sostenendo soprattutto i giovani. A Roma contribuì a promuovere, con articoli e conferenze, l'istituzione dei concerti popolari e di quelli dell'Augusteo. Seguono molte riprese (di cui il programma di sala del Lirico non dà notizia): Palermo, Teatro Massimo, febbraio 1926 (direttore Arturo Lucon); Genova, Teatro Carlo Felice, 23 gennaio 1934 (direttore Giuseppe Mulè); Roma, Teatro Reale dell’Opera, 1938 (interpreti: Gilda Alfano, Giovanni Malipiero, direttore Oliviero de Fabritiis, molto probabilmente con il Finto Arlecchino di Malipiero. L'opera di Mulè venne ripresa nel 1939 ed eseguita assieme a Taormina, La zolfara e il balletto La Giara di Casella. ). Arriva anche in Portogallo, a Lisbona e Oporto, nel maggio 1938.  Roma, Teatro Quirino, 11 marzo 1953 (interpreti: Dina Piccini, Pina Monti, Pietro Milana. Direttore Riccardo Santarelli). Lo stesso Mulè, che ebbe anche carriera di direttore, ne realizzò diverse edizioni alla radio italiana: 13 giugno 1934; 28 settembre 1935; 19 settembre 1937; 4 luglio 1942.

Altre composizioni di Mulè. In quegli anni si respirava, nel mondo musicale siciliano (ma non solo in quello siciliano) quasi un bisogno di 'costruire' una sorta di 'scuola regionale'. Era la Palermo dei Florio, era la Palermo in cui l'etnologo Giuseppe Pitrè effettuava ricerche sulla tradizione popolare. Alberto Favara, docente di composizione al Conservatorio panormita, riversa melodie popolari siciliane raccolte nelle sue ricerche sul campo in due poemi sinfonici, Primavera per piccola orchestra e Sogno in val d'Enna (1913), mentre uno sei suoi maggiori allievi, Gino Marinuzzi, scrive nel 1910 la Suite siciliana (la melodia di Valzer campestre è ripresa nella canzone Valzer per un amore) e Sicania (1912), Giuseppe Mulè scrive la suite Sicilia canora, i poemi sinfonici La vendemmia e Fra i gelsi e Tre canti siciliani per voce e orchestra. L'altro filone, per l'appunto, è quello dei canti siciliani, per cui fanno a gara per pubblicarli diversi editori, incluso Ricordi, che a cavallo tra i due secoli pubblica Paruleddi d’amuri di Pietro Gulì Caracciolo e prosegue con Stidda Diana di Benedetto Morasca, O passareddu! e Comu si campa? di Paolo Dotto Pollaci.

E Mulè ecco che di sicilitudine intride la sua prima opera, La baronessa di Carini (1912), un femminicidio ante litteram, perpetrato nel Cinquecento dal padre nei confronti della figlia, rea di amare un uomo del clan rivale. Al lupo!, sua seconda opera (1919), si svolge a Borgetto, nei pressi di Monreale, ed è un racconto passionale e folclorico assieme della Sicilia feudale dal sapore decisamente verista. Dopo La monacella della fontana (1923), arriva Dafni (1928, una favola pastorale sull'Orfeo siciliano, che ebbe la prima a Roma, Teatro Reale dell’Opera, il 14 marzo 1928: dirigeva Gino Marinuzzi con Bianca Scacciati (soprano), Franco Lo Giudice (tenore)  e Carmelo Maugeri (baritono). Seguirono numerose rappresentazioni, sia radiofoniche sia in teatro, da Buenos Ayres a Dusseldord, fino al 1990, dove venne proposta al Politeama di Palermo, direttore Maurizio Arena.

La più siciliana delle opere di Mulè fu Liolà (San Carlo, Napoli, 1935) che daI Popolo d’Italia venne così descritta: «Liolà, tutta tessuta da motivi folcloristici, e squadrata con la misura e le proporzioni delle opere liriche di ieri. Tutta una melodia, si può dire, citata e desunta dal folclore siciliano, con gli scatti dell’impeto lirico e la vivacità e i colori strumentali propri dell’ultimo nostro melodramma trionfante, Liolà è un atto di fede melodrammatica».

Nel 1938, a Sanremo, va in scena l'idillio Taormina (ancora su libretto di Adami) e a Palermo l'ultima opera, nel 1941, La zolfara: nella Sicilia dell'Ottocento, un gruppo di zingari si ferma presso una zolfara per dare spettacolo ai lavoratori. È uno spettacolo violento, con la danza della frusta a cui è sottoposta la bella Zulma (che alla prima era Pia Tassinari, affiancata da Giuseppe Valdengo), colpevole di avere disobbedito all’amante e al marito.

Ritorno sulla scena

La monacella della fontana a Cagliari. 

Cagliari, 29 marzo 2025 - Non si è trattato di una 'prima' cagliaritana, quella di cui qui si dà notizia. A Cagliari la prima edizione dell’opera risale al 2 marzo 1934 al Teatro Civico, con Licia Albanese, allora stella del Metropolitan di New York, insieme a Olga Jacchia (La Monacella), Arturo Ferrara (Pedru), Caliari (La madre), mentre il direttore era Tullio Berrettoni. L’esecuzione, in forma scenica, era abbinata con Cavalleria rusticana di Mascagni. Nel 2025, invece, abbiamo l'infelice scelta artistica di presentarla da sola, nei suoi trentacinque minuti solamente, e in aggiunta con la totale assenza di soprattitoli.

Il programma di sala, contenente il libretto d'opera, presenta un saggio di Johannes Streicher, docente di Storia della musica per didattica presso il Conservatorio di Bolzano, che riesce a raccontare la genesi dell'opera e la figura di Mulè dribblando completamente i rapporti del compositore con il fascismo,che non furon pochi, visto che Mulè fu segretario nazionale del Sindacato Nazionale Fascista Musicisti e, assieme ad un altro compositore, Adriano Lualdi, capofila dell'area più reazionaria della poetica musicale del regime. Membro del Consiglio nazionale delle corporazioni come di varie commissioni ministeriali, sino a quella per l’‘autarchia musicale’, e presidente di una sezione del ministero dell’Educazione nazionale, promosse i compositori fedeli alla tradizione italiana; nel 1932 fu tra i firmatari del manifesto antimodernista e nel 1939 finì per ostacolare la partecipazione italiana al Festival di Varsavia, vanificando l’operato di Alfredo Casella, che in altre occasioni aveva sostenuto. Senza dimenticare che l'opera Dafni venne da Mulé dedicata a «Benito Mussolini, fiera anima italiana».

Per la concertazione e direzione di quest'opera di Mulè si è scelto Alessandro Bonato, uno dei direttori italiani della nuova generazione i cui progressivi successi sono ampiamente meritati. Quel che mi ha colpito più nella sua concertazione, in una pagina assolutamente sconosciuta per la quale non c'è confronto, è il gesto: una direzione 'fisica', una attenzione per ogni sezione curata con gesti minimi ma efficaci, un potere comunicativo delle spalle, l'eleganza delle braccia, l'attenzione ai quattro solisti (posizionati forse un po' troppo avanti), cui si è sempre rivolto con nettezza offerta col sorriso, quell'ampio guidare il coro in alto, sul fondo (l'opera era proposta in forma di concerto). I momenti più tronfi sono tenuti da Bonato su un margine di costruito controllo sonoro: penso al duetto su cui, alla massa orchestrale, si incuneano interventi dell'arpa, delle percussioni, dei piatti, o agli ottoni che precedono l'ingresso dell'intervento del coro; al far emergere con nitore la parte delle campane tubulari assieme al coro, le cui voci più gravi si uniscono in un fraseggio cupo e denso ai violoncelli e al basso tuba. Difficile gestire un cromatismo di sbiadita eco wagneriana cui restituire una ritrovata dignità esecutiva; c'è un barbarismo che, forse con qualche eccesso d'entusiasmo, Streicher nel programma di sala crede possa essere un rimando, dieci anno dopo, al Sacre stravinskiano, azzardando persino Mulè come un fratello in spiritu del Daphnis et Chloé di Ravel. Ora Bonato è riuscito, credo, nell'impossibile: nell'offrire una lettura attenta alle dinamiche e minuziosa nel controllo delle sezioni, ha reso ascoltabile una pagina che alterna a slanci lirici (penso all'aria di Pedru sulle parole “è finita”) certe inquietanti quinte vuote. Bella assai la resa del coro (preparato da Giovanni Andreoli e guidato con amorevole attenzione da Bonato) dal colore mesto e lamentoso degli “Ah ah” iniziali allo smorzarsi in pianissimo della chiusa finale “La miseria e l'angoscia / l'angoscia e la speranza / sei Santa!”.

Il quartetto vocale era composto da Chiara Mogini, una Monacella dall'ambrato timbro mezzosopranile, dal canto legato e profondo. Renata Campanella, una Marù che Mulé sottopone in partitura a tormentati passaggi sul registro acuto, ottimamente gestito dal soprano, che invece nei centri e in basso sembra perdere volume, oltre a mostrare una articolazione che rende spesso indecifrabile il testo. Pavel Kolgatin è un Pedru dalla vocalità limpida, luminosa, ed anche lui è portato da Mulè a un permanente cantare sul registro più acuto che il tenore sostiene senza mai spingere o forzare. Efficace, nella piccolissima parte della Madre, Barbara Crisponi.

L'esecuzione dell'opera è stata piacevolmente preceduta da una sorta di presentazione da parte di Alessandro Bonato sul valore di una riscoperta (il cui giudizio ultimo dovrà essere comunque la risposta del pubblico), sul rapporto tra le biografie dei compositori, le loro creazioni e il contesto storico in cui operarono.

Pubblico non numeroso, comunque convinto negli applausi.

Ma ribadisco: trentacinque minuti sono davvero poca cosa. Un Preludio sinfonico di Puccini ? O Il canto del lavoro per coro e orchestra di Mascagni ? O Sicania di Marinuzzi ? Si spera in una prossima, nuova, vera direzione artistica. Le speranze, si sa...

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Cagliari, Adriana Lecouvreur, 27/10/2024


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