L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Donizetti in grande alla Fenice

di Francesco Lora

L’integralissima Anna Bolena diretta a Venezia da Renato Balsadonna ha convinto anche lo scettico regista Pier Luigi Pizzi, che trae profitto dall’autentica fisionomia dell’opera insieme con gli interpreti Lidia Fridman, Enea Scala, Alex Esposito, Carmela Remigio e Manuela Custer.

VENEZIA, 30 marzo 2025 – Anna Bolena è stata espressamente concepita da Donizetti come opera grande, per notevole lunghezza della partitura (circa tre ore e un quarto nette d’ascolto), per maestà di concezione dei suoi “numeri” (fino all’articolatissima gran scena conclusiva) nonché per dialettica, maturità e resistenza richiesta agli interpreti principali (che alla “prima” milanese del 1830 erano divi consacrati o avviati alla fama). Il modello di Semiramide di Rossini o del Crociato in Egitto di Meyerbeer vi si fa sentire, a lapalissiano e tutt’altro che scontato patto di essere alfabetizzati a quel modello stesso. La fortuna di questo capolavoro è essere stato ricondotto al repertorio da Maria Callas e Gianandrea Gavazzeni; la sua sfortuna è che ciò sia avvenuto con tagli sprovveduti e snaturanti, pari a un inverecondo 30% della partitura. Non esiste alcuna legittima ‘versione Gavazzeni’, bensì un modello da non ripetere, eppure ripetuto a oltranza dal 1957 al presente. Strabene, ultrabene, arcibene ha dunque fatto Renato Balsadonna, il concertatore che al Teatro La Fenice di Venezia, nelle cinque recite dal 28 marzo al 6 aprile, ha inteso dirigere Anna Bolena integralissimamente (chi scrive lo attendeva al varco e ha preso sul muso un pugno al merito della propria diffidenza) e in edizione critica (che in sé non significa eseguire senza tagli, ma su un testo ripulito dai pasticci di un uso casuale). Come già a Bergamo nel festival monografico di dieci anni fa, si è così potuto ascoltare l’opera nella sua splendida complessità, tale da distribuire il protagonismo ben oltre il carisma del soprano protagonista e tale da rivelare ciò che gli epigonetti gavazzeniani nascondono sotto il tappeto. Con un solo bemolle amichevolmente rilevato: quella della Fenice è una sanissima orchestra a cilindrata grossa, sicché, se non si bada a graduare instancabilmente l’acceleratore, basta un attimo a trovarsi in esubero di decibel e a richiedere sforzi aggiuntivi ai cantanti. Nell’intervista consegnata al programma di sala, Pier Luigi Pizzi, il relativo regista, scenografo e costumista, sostiene invece con entusiasmo le potature di settant’anni fa: gli fa onore d’essersi ricreduto durante le prove, e di aver consegnato, oltre che un testo non menomato da capricci obsoleti, uno di quei suoi recenti spettacoli in scala di grigi, scaldati con poco viola, giallo e rosso, fedeli all’ambientazione storica ma con l’oleografia tradotta in design, animati da cantanti non tanto aziendalmente istruiti quanto paternamente spronati a dare il massimo di sé, ciascuno per la propria via ma puntando a un dialogo comune, anche come attori appassionati.

In tre delle quattro parti principali, incuriosisce l’arruolamento degli stessi interpreti di punta già allineati nella Lucrezia Borgia del febbraio scorso all’Opera di Roma. La prima è Lidia Fridman, come suo solito studiosissima e assai preparata, generosa di risonanza – anche oltre ciò che l’acustica della Fenice richiederebbe – e con un’emissione sempre più contraltilmente coperta pur a fronte di un’estensione sopranile e di una timbrica omogenea; i passaggi d’agilità sono onorati sia nella grazia sia nella forza, mentre le idee recate nelle variazioni lasciano a desiderare; non sarà allora un caso che da Donizetti ella guardi ormai alla Salome straussiana, per il subito successivo debutto al Maggio Musicale Fiorentino, né andrà dimenticata l’alta dignità scenica di questa sua forse episodica Anna Bolena: pensierosa, introversa, regale appunto nel doveroso dominio delle emozioni personali. È poi il turno di Enea Scala, oggi provvidenziale erede delle parti baritenorili concepite per Andrea Nozzari e Domenico Donzelli piuttosto che di quelle contraltine per Giovanni David Giovanni Battista Rubini: a quest’ultimo era invece destinata la parte di Lord Riccardo Percy, che induce Scala a stringere i denti e squillare portentosamente, ma anche – non v’è nulla di male – a eseguire la propria aria col tradizionale abbassamento di tono (lo stesso verosimilmente attuato per Donzelli: e il cerchio si chiude). La terza mutuazione romana è quella di Alex Esposito, qui Enrico VIII in un’iperrealistica visione attoriale che implica un porgere duro, brusco, caustico, istrionico, con birignaosa parola in primo piano rispetto a una linea melodica che pure potrebbe essere morbidamente modulata senza perdere alcunché sul versante espressivo: il caratterista entusiasta erode viepiù il musicista scrupoloso, con però l’effetto di uniformare e appiattire in una stessa ghignante soluzione – anziché di analizzare e distinguere – la folta galleria di vilains interpretati. Nessun artista più di Esposito potrebbe tuttavia intrattenere, per patente e totale interesse alla resa scenica, una comunicazione alla pari con Carmela Remigio, un’Anna Bolena di vaglia cui piace però calarsi anche negli opposti panni dell’antagonista Giovanna Seymour: ella vi è perfetta per moderna, bipolare, combattuta, forse ipocrita ambiguità, e dà saggio di cosa significhi essere ‘attore vocale’, ossia saper dar luogo a gesti visivi memorabili anche solo con l’intonare suoni per chi ascolti a occhi chiusi. Forte di una lunga esperienza, infine, è Manuela Custer: per la parte di Smeton, con due arie nell’Introduzione e nel Finale I, non basterebbe infatti una comprimaria qualsiasi.

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