L’Ape musicale

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Il nostro approfondimento: Otello, tragedia rossiniana

L’opera in breve

Emilio Sala

Sarà per l’ascendente shakespeariano, sarà per l’impatto straordinario che il terzo Atto di quest’opera ebbe a livello internazionale, ma l’Otello di Rossini è stata una delle opere serie più vitali del maestro pesarese e una delle prime a essere recuperate all’interno di quella “Rossini Renaissance” la cui portata epocale, nel panorama operistico degli ultimi decenni, non sarà mai abbastanza sottolineata. Naturalmente il riferimento a Shakespeare va inteso a doppio taglio. È arcinoto infatti che quando Byron vide Otello nel febbraio 1818 a Venezia condannò l’opera per lesa maestà shakespeariana: come si erano permessi, Rossini e il suo librettista, di trasformare in billet-doux il fatidico fazzoletto dell’originale? Oggi sappiamo fin troppo bene che il rifiuto estetico di opere come l’Otello di Rossini (o il Macbeth di Verdi) per scarsa fedeltà al sacro modello shakespeariano è un habitus ricettivo alquanto discutibile e appartenente al passato (fortunatamente). Anche quando istituiscono rapporti forti con la loro fonte letteraria, non è certo in base al principio di fedeltà che le opere “derivate” devono essere giudicate. L’Othello di Orson Welles è un bellissimo film anche se (e forse perché) si distacca non poco dal suo prototipo originario. Di fatto la sostituzione del “foglio” al fazzoletto rinvia alla vera fonte primaria utilizzata dal marchese Francesco Berio di Salsa per approntare il suo libretto: Othello ou le More de Venise, tragedia in 5 atti di Jean-François Ducis (1792), che in appendice riporta anche un “dénouement heureux qu’on peut substituer au dénouement funeste”. Questo dato ci obbliga a una piccola digressione. Quando l’Otello di Rossini venne rappresentato a Napoli nel 1816 si concluse con il “dénouement funeste”: l’assassinio di Desdemona e il suicidio del Moro. Ma esiste una ripresa dell’opera di qualche anno dopo (Roma, Teatro Argentina, carnevale 1820) in cui Rossini introdusse il “dénouement heureux”, secondo una prassi abbastanza diffusa all’epoca (vedi il “doppio finale” del Tancredi, per esempio). Dobbiamo considerare questa variante come una prova ulteriore dello spirito “classico” (cioè antiromantico) del compositore “della Restaura zione” che – secondo un ben noto stereotipo critico – si disinteressa bella mente delle ragioni del dramma? In realtà quella dell’Otello è una drammaturgia progressiva; e non solo per quanto riguarda il terzo Atto. Basti pensare alla cabaletta del duetto tra Otello e Jago del secondo Atto (“L’ira d’avverso fato”). Si tratta di un caso che per essere assai famoso non è per questo meno significativo. Orbene, se ascoltate bene la mossa iniziale di questo brano vi accorgerete subito che l’idea del “Sì, vendetta, tremenda vendetta” del Rigoletto di Verdi viene da lì. Indubitabilmente. E trentacinque anni prima. Ma non basta. Tornando al terzo Atto, che cosa c’è di più romantico del celebre momento in cui “sentesi da lungi il gondoliero che scioglie all’aura un dolce canto”? In questa Barca rola a essere intonato è il testo dantesco di Paolo e Francesca: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”. L’effetto di struggente nostalgia che ne deriva è tanto più rimarchevole quanto più si porta a coscienza il fatto che, come ha notato Marco Grondona, in questo brano Rossini ha fatto riemergere, a mo’ di reminiscenza, su un tremolo d’atmosfera, le prime battute della Marcia funebre dell’Eroica beethoveniana. Ciò che va anche messo in evidenza è che l’adozione dei versi danteschi, come sap piamo da una preziosa testimonianza che il compositore rilasciò a Ignaz Moscheles, fu una precisa volontà dello stesso Rossini: “È a Dante che io devo molto; ho più appreso musica leggendo Dante che in tutte le mie lezioni ve re e proprie di musica. Ho assolutamente voluto introdurre versi di Dante nel mio Otello – sapete, i versi del gondoliere. Il mio librettista ha avuto un bel dirmi che i gondolieri non cantavano mai Dante, tutt’al più Tasso. Gli risposi che ero più informato di lui, perché io avevo abitato a Venezia e lui no – mi occorreva Dante”. Che Rossini si sia mostrato così intransigente in questo frangente non è solo significativo dell’importanza da lui attribuita a questo “punto di scena”, ma anche del mutato rapporto di forza tra librettista e compositore, mutamento che pur essendo già in atto avrà compimento definitivo in età verdiana. Dunque anche Rossini si apre (eccome) alle nuove istanze della drammatur gia musicale dell’età romantica, ma è difficile negare il lato convenzionale del suo genio (genio e regolatezza). In fondo questa apparente contraddizio ne tra convenzionalismo e drammaticità è un nostro – falso – problema, ere di come siamo dello schema oppositivo tra “opera” e “dramma” che per fin troppo tempo ha alimentato lo stereotipo del Rossini antiromantico e antidrammatico di cui si diceva più sopra. Se prendiamo uno dei numeri della partitura più convenzionali, ossia il Finale del primo Atto, possiamo cogliervi tra l’altro un momento di rara efficacia drammatica, che sarebbe stato “fotografato” non a caso da uno dei pittori più rappresentativi del romanticismo francese: Eugène Delacroix. Si tratta del momento in cui Elmiro maledice la figlia su un “melodrammatico” accordo di settima diminuita, cui segue il tableau del concertato di stupore (“Incerta l’anima”). Delacroix si ispirò a questo momento rossiniano per dipingere il suo famoso quadro Desdemona maledetta dal padre. Ed è inutile sottolineare, credo, la centralità della male dizione paterna nel melodramma romantico. Quella del Finale è una costruzione convenzionale, certo, ma quello che conta è l’uso drammatico che Rossini nefa. A prenderla dal punto di vista puramente formale (anatomico), ci troviamo di fronte alla solita struttura chiusa: un Finale in do con il concertato di stupore in la bemolle (come nel Barbiere di Siviglia o nella Semiramide). Ma bisognerebbe andare oltre il dato anatomico-morfologico per far emergere e cercare di ca(r)pire la drammaturgia (o la fisiologia) dell’impianto costruttivo. Si vedrà allora che Rossini – e soprattutto il Rossini napoletano – concepisce le sue opere anche sub specie dramatis.

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foto Matthias Bauer


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