L’Elisir di lunga vita
Il Massimo di Palermo ripropone l’Elisir donizettiano nell’allestimento di lungo corso dell’Opera di Roma firmato da Ruggero Cappuccio. Nella compagnia spicca l’irresistibile Dulcamara di Paolo Bordogna a fianco di Desirée Rancatore, René Barbera e Vittorio Prato sotto la bacchetta di Ferro.
Palermo, 11 aprile 2025 - Un Elisir di lunga vita è quello confezionato da Ruggero Cappuccio per l’Opera di Roma – tenuto a battesimo una quindicina d’anni fa da Bruno Campanella – che il Teatro Massimo di Palermo riprende in questi giorni. Le ragioni della longevità risiedono probabilmente nella semplicità delle quinte tralicciate bianche di Nicola Rubertelli, nell’assenza di attrezzeria eccezion fatta per un paio di tavoli e per l’astronave piramidale di Dulcamara, negli adattabilissimi costumi a cerate fiorate trasparenti su fondo bianco disegnati da Carlo Poggioli. Di certo l’estrema stilizzazione non è poi di grande funzionalità se la gestione delle masse finisce con l’indugiare nelle solite mossette a tempo (neanche ben sincronizzate), nel lasciare i personaggi all’esperienza di chi li porta in scena (con l’immaginabile varietà di risultati) o nel dover ricorrere a giocolieri e ginnasti affinché qualcosa accada durante le arie del secondo atto. Sì alla longevità, ma adesso è giunta l’ora dell’eutanasia.
L’elisir di lunga vita giova invece all’immarcescibile Paolo Bordogna che nei panni di Dulcamara (già vestiti al Massimo palermitano nel 2012) ha eletto uno dei suoi personaggi paradigmatici; la saldezza della linea di canto, la capacità di disegnare tutto anche solamente con uno sguardo, il saper resistere alla facile tentazione di sbancare l’applausometro con qualche sottolineatura caricaturale di troppo fanno della sua prova l’elemento di maggior freschezza della serata. Desirée Rancatore, anch’ella protagonista nell’Elisir palermitano del 2012, torna a disegnare la sua personalissima Adina con pregi e difetti di allora, arricchiti oggi dal bagaglio delle Violette, Norme e Mimì che son venute dopo. Il suo Nemorino questa volta è un latinissimo René Barbera, dal pregevole timbro e dal solfeggio a volte arbitrario, tutto giocato al risparmio puntando dritto a una Lagrima quanto mai furtiva, che gli vale un bel successo di pubblico. A completare la compagnia, oltre la puntuta Giannetta di Federica Maggì, è il sicuro Belcore di Vittorio Prato, molto a suo agio nella tessitura acuta anche se fin troppo evanescente nel grave.
Più che alla lunga vita punta direttamente all’eternità l’Elisir di Gabriele Ferro, che riapre benemeritamente i tagli di riprese e code oltre ad optare per una lettura decisamente sbilanciata più sul larmoyant che sul buffo, caratterizzata da scelte agogiche di grande compassatezza. La prospettiva interpretativa è certamente intrigante, specie quando legni o corni obbligati dell’Orchestra introducono con preziosa perizia; convincono decisamente meno la brillantezza del suono, le arcate quasi cimarosiane, l’equilibrio fra le sezioni, la sintonia con la banda in quinta o con il Coro preparato da Salvatore Punturo e la quadratura di insieme, talvolta perfettibile e non esente da vistosi scollamenti (uno su tutti il sofferto avvio del duetto Nemorino-Belcore del secondo atto), cui avrebbe probabilmente giovato qualche prova ulteriore. Si auspica Ferro possa ottenerla per il Freischütz che ha proposto di portare in scena nella prossima stagione d’opera.
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