L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beethoven e una Nona non sua

 di Stefano Ceccarelli

L’approfondimento novecentesco – marcatamente del patrimonio russo – continua ancora nell’ultimo appuntamento di una serie di bei concerti che l’Accademia di Santa Cecilia sta inanellando con perizia e competenza. A dirigerlo il versatile Pablo Heras-Casado, direttore in via di affermazione sulle scene internazionali e capace di spaziare fra diversi repertori e epoche. Non stupisce vederlo impegnato nella Sinfonia “Classica” di Sergej Prokof’ev, nel Secondo concerto per pianoforte e nell’ouverture da Le creature di Prometeo di Ludwig van Beethoven, per terminare nella Nona sinfonia di Dmitrij Šostakovič. Al pianoforte, per il Secondo di Beethoven, Emanuel Ax, polacco d’origine ma canadese d’adozione, oramai celebre in tutto il mondo per le acute doti d’interprete. È un evento a suo modo speciale, inoltre, perché Ax mancava dall’Accademia da un venticinquennio.

ROMA, 9 febbraio 2016 – Non c’è nulla di più appagante di godersi un bel concerto dando un occhiata a note di sala degne di questo nome; se, poi, a scriverle è l’arguta e ingegnosa penna di Piero Rattalino, l’appagamento è totale. Rattalino si destreggia fra (quasi) tre secoli di musica con una competenza e una limpidezza incredibili. Come quando descrive il gusto haydnianamente classico della Sinfonia n. 1 “Classica” in re maggiore op. 25 di Prokof’ev: «il rétro non era, però, ideologicamente antiquato, e non era neoclassico, cioè non anticipava la svolta neoclassica di Stravinskij, che negli anni Venti sarebbe passato dal russismo dei primi grandi balletti alla, adornianamente, “restaurazione”»; e ancora «il concetto di “classico” che guida Prokof’ev è però quello utopistico di Winckelmann, nobile semplicità e quieta grandezza»; quel Prokof’ev, aggiungerei, che si opponeva alla caduta della vecchia Russia dopo il 1917. Nella direzione della Classica, Heras-Casado è bravo a far percepire il mix di brillantezza e ironia che caratterizza il pezzo: Prokof’ev inscena una raffinata parodia (sconfinante quasi nella citazione ad litteram) dello stile classico, soprattutto di quello di Haydn, che il direttore sa cogliere e con cui sa, ludicamente, divertirsi e farci divertire.

All’entrare di Emanuel Ax si esegue il Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 19 di Beethoven. L’intesa fra i due è ottima; l’orchestra, rodata dai chiarori della Classica prokofeviana, tira fuori le sonorità giuste. Ax, fin dall’Allegro con brio (I) sciorina il suo pianismo nobilissimo, antico, fatto di naturalezze (addirittura verista nella resa sonora): suoni torniti e sgranati, pulizia estrema gli consentono di affrontare la serie di scale e impervietà della destra dando l’impressione di eseguir tutto con elegante nonchalance. Dell’Adagio (II)sono apprezzabilissime le atmosfere a fil d’acqua che Ax crea, talune fluttuazioni virtuosistiche sotto un letto orchestrale che ricorda atmosfere scottiane. Il Rondò (III) vede Heras-Casado molto partecipe e vivace nella conduzione: Ax entra sempre bene, con precisione, mostrando un’altra sua ottima qualità, cioè l’uniformità di suono esecutivo fra mano destra e sinistra. Nel finale «birichino» (come lo ha argutamente definito Rattalino) gli riesce un trillo alto cristallinamente magnifico. Gli applausi sono calorosi e giustamente l’esecutore viene ovato: Ax regala, allora, al pubblico una sfumata versione del Valzer brillante op. 34 n. 2 di Chopin.

Troppo tiepidi applausi si prende, invece, l’esecuzione pur ragguardevole dell’ouverture all’italiana dal balletto Le creature di Prometeo che Beethoven creò per Salvatore Viganò; peccato, giacché Heras-Casado palesa ancora lucentezza e brillantezza affrontando una scrittura certo non semplice. Segue, dopo, la Nona…ma non di Beethoven. Una Nona certo storica, ma per altri versi. Si tratta della Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore op. 70, capolavoro, per lo più incompreso intellettualmente ma istintivamente amato dai contemporanei, di Šostakovič. La Russia usciva a testa alta dalla Seconda Guerra Mondiale: Šostakovič componeva la Nona proprio mentre Stalin discuteva dei trattati di pace a Postdam. E, con la più grande naturalezza del mondo, Šostakovič – già perseguitato come insubordinato dal mastino che Stalin aveva slanciato contro gli intellettuali, Ždanov – disattese le manie di grandezza del dittatore sovietico, componendo una sinfonia di una incredibile leggerezza, almeno apparente – per quanto possa essere leggera musica composta da Šostakovič. In questo concordo con la lettura di Volkov: la Nona fu una sinfonia «antipopolare», non amata da Stalin e dall’intellighenzia sovietica, ma istintivamente apprezzata dal popolo russo, in quanto Šostakovič, da «populista intuitivo» qual era, riusciva a far vibrare «le emozioni nascoste delle “masse”» (cito da Volkov, Stalin e Šostakovič. Lo straordinario rapporto tra il feroce dittatore e il grande musicista). In tal senso, non mi sento di condividere la lettura assolutamente ottimistica di Rattalino, che immagina uno Šostakovič celebratore della liberazione da una guerra odiata e chiusa per sempre. L’ottimismo di Šostakovič è sempre – a mio avviso – relativo: la musica parla anche di ansie latenti. Certo, tutta questa complessità Heras-Casado non la coglie appieno nella sua direzione. Nell’Allegro, ovviamente, sente tutta la screziatura timbrica, dai ritmi martellanti degli archi ai leggeri guizzi dei legni, dalle tronfie marce degli ottoni (quasi musica da cartoons) ai pizzicati degli archi: ma non ne coglie l’intima, nera ironia, come per esempio seppe fare Bernstein, raffinato interprete del russo. Allo stesso modo, nel Moderato, si coglie l’elegia, ma non l’intima paura dell’ignoto post-bellico; in ogni caso, Heras-Casado si trova più a suo agio con movimenti maggiormente vivaci – c’è da registrare, nel II movimento, anche un’inelegante entrata dei corni e qualche problemino con i legni. Dal Presto ritorna l’atmosfera aristofanesca, che si disfà in una melopea del fagotto piena d’interrogativi, cui il compositore risponde ritornando all’atmosfera di (apparente?) freschezza dell’inizio: qui Heras-Casado s’avvia a concludere bene, con ampio gioco di volumetrie e colori. Applausi per tutti.


 

 

 
 
 

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