L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Da Vienna a Vienna

 di Mario Tedeschi Turco

Ilya Gringolts offre con il pianista Peter Laul una memorabile interpretazione di Mozart, Dvořák e Korngold.

VERONA, 5 marzo 2019 - Mozart, Sonata K. 526; Dvořák, Sonatina,op. 100; Korngold, Sonata in Sol maggiore, op. 6: da Mozart al «nuovo Mozart» (così era chiamato nella Vienna d’inizio secolo l’enfant prodige Erich Wolfgang), in un impaginato per violino e pianoforte da far venir l’acquolina in bocca al pubblico degli Amici della Musica al Teatro Ristori, e far tremar i polsi agli esecutori. Sì, perché un programma del genere richiede una capacità rilevata, da parte degli interpreti, vale a dire quella di variare l’approccio stilistico, con la relativa temperatura espressiva, dal classico al postromantico, passando per l’approccio semifolklorico rivisitato del compositore boemo. Ma se si guarda più da vicino, i nessi culturali che legano i tre, nonostante la distanza temporale e di scrittura, sono ben stretti: Vienna, la Boemia e la bassa Moravia, di cui l’ebreo Korngold era nativo; insomma, la grande area dell’Impero asburgico e i suoi linguaggi diversi in momenti lontani, che si misurano con la forma-sonata pensata per i due strumenti in prospettiva evolutiva, hanno costituito l’architettura di un formidabile concerto, di quelli che lasciano il segno.

Che Ilya Gringolts sia tra i migliori violinisti della sua generazione è ormai testimoniato da numerose incisioni, oltre che dai tanti concerti in tutto il mondo. Ricordiamo ancora le recensioni dei primi album per l’etichetta BIS (che spaziavano da Paganini a Schnittke), con la critica concorde nel lodare la «tecnica mostruosa» e lo «stupefacente virtuosismo» del ragazzo russo. Ed è stato bello notare, al Ristori, come i fuochi d’artificio della giovinezza siano diventati musicalità purissima, consapevolezza stilistica, rigore di linee e di forme, trasparenza cristallina di timbri, onde restituire con fedeltà e fantasia insieme i testi da offrire al pubblico. Prendiamo il suo Mozart, in uno dei massimi capolavori terminato nello stesso anno del Don Giovanni, 1787: nel Molto allegro di inizio, la dinamica mai forzata e un uso estremamente sobrio del vibrato hanno permesso di sbalzare con una nettezza davvero apollinea sia il primo tema “di caccia”, sia lo strabiliante susseguirsi dei quattro motivi melodici che formano l’impianto del brano, così che poi lo sviluppo, articolato solo sul primo e sul quinto tema, ne è sortito con un’evidenza e un’energia di metamorfosi assolutamente perfette. Canto sorgivo, sognante, addirittura estatico, secondo l’annotazione famosa di Alfred Einstein, si sono ritrovati poi nell’Andante, attaccato con un pianissimo pur perfettamente tornito, cui si aggiungevano nel corso del movimento altri passaggi di uguale dinamica, sulle progressioniarpeggiate, che davvero parevano i sussurri di una preghiera di beati. Ancora la purezza delle linee si stagliava nel Rondò finale, con i segmenti di contrappunto a tre voci perfettamente stagliati grazie anche all’intesa con l’ottimo pianista Peter Laul, sino alla Coda finale, trionfante nel celebrare la sua stessa bellezza costruttiva.

Come un “piatto di mezzo” tra due più sostanziose portate, è giunta la Sonatina di Dvořák, ultima composizione portata a termine dal suo autore durante il soggiorno negli Stati Uniti, nel 1893. Il carattere rapsodico del primo movimento ha visto Gringolts e Laul offrire un altro saggio di coesione organica specie nelle alternanze ritmiche binario/ternario del secondo tema. Ancora lirismo mai esibito, ma tutto interiore, nel magnifico Larghetto, mentre nell’Allegro finale, Gringolts accelera sui ritmi fortemente sincopati, sulle doppie corde strappate, facendo vedere che il virtuosismo della sua prima giovinezza c’è ancora tutto, quando serve.

La colossale Sonata di Korngold, che fu scritta nel 1912, a 15 anni, e dedicata al violinista Carl Flesch e al pianista Arthur Schnabel, propone subito, quale differenza formale rispetto agli altri due brani in programma, il ruolo strutturale maggiormente rilevato del pianoforte. Così, tra echi di Richard Strauss, di Zemlinsky e dello stesso Mahler, la densità che diresti sinfonica della scrittura di Korngold ha trovato nel dialogo serratissimo tra i due musicisti quell’equilibrio senza il quale questa musica rischia di perdere completamente il proprio centro stilistico, e quindi il suo senso. Ma le digressioni continue dopo l’attacco del violino sull’impetuosa ascesa di undicesima e quattrodicesima (la seconda dopo una doppia terzina), le cascate di ornamentazioni, il gesto espressivo ora lirico, ora di lacerato espressionismo, le ardite modulazioni in tonalità lontane che scardinano, con il loro cromatismo, ogni regola secondo il principio della tonalità allargata; bene, tutta l’estenuazione iper-romantica di Korngold con Gringolts e Laul è stata non solo riprodotta con perfezione immacolata, ma interpretata secondo il più autentico spirito dell’autore, che sempre si è servito dei più complessi meccanismi di scrittura (anche con deliberato eccesso di efflorescenze esornative) al fine di dar forma nuova al retaggio della tradizione classico-romantica, al suo senso architettonico, alla sua dialettica tematica. Un Korngold di visibilità totale, nel nitore dell’esecuzione, superata con facilità quasi irrisoria da Gringolts anche nei passaggi più ardui, come i poderosi pizzicati con la mano sinistra a fronte del ribollire veemente del pianoforte. E quanto all’Adagio, da eseguirsi «mit tiefer empfindung» («con la più profonda emozione»), o all’assorta elegia dell’Allegretto quasi Andante finale, Gringolts e Laul l’hanno plasmato con una tinta da Vienna al crepuscolo cui le parole non possono attingere.

Bis pirotecnico con una trascrizione dello Scherzo dell’Uccello di fuoco di Stravinsky, che era il compositore contemporaneo preferito di Korngold: scelta di congedo culturalmente azzeccatissima, dunque. Con i grandi interpreti, del resto, va sempre così.


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