Dall'ultima alla prima
di Roberta Pedrotti
Il galà per il compleanno di Verdi è affidato quest'anno a Maria Agresta in una carrellata di eroine à rebours da Otello a Oberto in compagnia del baritono Gabriele Viviani e del pianista Michele d'Elia. Nella serata, presente l'artista, si presenta anche un nuovo sipario di Mimmo Paladino.
Parma, 10 ottobre 2021 - Alice Ford è decisamente troppo indaffarata per soffermarsi a cantare un'aria di ampio respiro, che delega semmai alla figlia Nannetta. Parlando di una vocalità più piena e matura, allora, il punto estremo si fissa nella Canzone del salice e nell'Ave Maria di Otello. Dall'ultima – quasi – primadonna verdiana via via si procede a ritroso fino alla prima, Leonora figlia di Oberto di San Bonifacio. Allora, in una scaletta così ben costruita, non turba nemmeno ritrovare il duetto dell'agnizione da Simon Boccanegra ascoltato solo la sera prima con altri interpreti. Sulla carta non sembrava troppo opportuno, nella realtà dei fatti tutte le elucubrazioni sulle convenienze e inconvenienze teatrali sono spazzate via. Anzi, un po' ci si stupisce che tutto funzioni così bene considerato il cambio in corsa, con la defezione dell'indisposta Eleonora Buratto, il sopraggiungere in sua vece di Maria Agresta, i necessari aggiustamenti alla scaletta.
Dunque Otello, Simon Boccanegra, La traviata, Giovanna d'Arco, I due Foscari e infine Oberto. Arie, ma anche duetti, perché il personaggio verdiano non è nulla se lasciato solo a monologare senza mai interagire – in questo caso con il baritono Gabriele Viviani. La prima osservazione viene, però, non dalle voci, bensì dal pianoforte di Michele d'Elia; risalire la corrente dell'esperienza verdiana ci permette di apprezzare anche l'evoluzione della scrittura, gli accompagnamenti dei primi anni che, scarnificati dall'impatto dell'orchestrazione svelano i loro schemi, quelli poi in cui si mettono a nudo dettagli talora trascurati in mille ascolti abitudinari, come quel valzer seminascosto in “Dite alla giovine”, a raccontare quella mondanità parigina in cui Violetta sta per tornare rinunciando al vero amore. La trascrizione del preludio dei Masnadieri, poi, ci fa sentire di fronte a un vero e proprio agitato pezzo da concerto.
Per Maria Agresta questo compleanno verdiano è un autentico tour de force, ma ne esce a testa alta soprattutto in virtù del temperamento e della cura dell'accento. Come già notato nel Requiem della settimana scorsa, nelle tessiture centro acute e nelle scritture più liriche la voce dà il suo meglio, mentre il registro grave e i passi più drammatici le risultano più ostici, tuttavia anche qualche suono più aspro o meno timbrato viene utilizzato saggiamente a fini espressivi, la parola parola è sempre al centro dell'attenzione, sia essa dolce o rabbiosa, perentoria o sussurrata. Sembra un paradosso, ma poi un po' di fatica si fa sentire proprio in un'aria che sembrerebbe nelle corde più belcantistiche e liriche di Agresta, “O fatidica foresta” da Giovanna d'Arco, che apre la seconda parte del concerto. Per ragioni opposte, la scrittura accidentata e ostica di Lucrezia Contarini nei Due Foscari resta un arduo scoglio e viene risolta con meno slancio ed efficacia rispetto ad altre pagine. La proprietà di accenti e colori del soprano rende, per esempio, giustizia alla dignità e all'umanità di Desdemona, donna più che mera vittima sacrificale. Piace, nondimeno, la determinazione anche nei momenti di sincero abbandono di Amelia Grimaldi / Maria Boccanegra, così come la misura di una Violetta che non cede al sentimentalismo e affronta a testa alta l'ineluttabile infrangersi delle sue aspirazioni. Infine, o all'inizio, l'epilogo di Oberto le offre l'occasione di innervare di un sentito slancio verdiano un linguaggio ancora ancorato ai modelli di Mercadante, Bellini e Donizetti.
Al suo fianco Gabriele Viviani si mostra in ottima forma, voce salda, dizione chiara, interpretazione ben calibrata sia che si tratti del paterno Doge Boccanegra o dell'inflessibile Giorgio Germont o dell'impotente e lacerato Francesco Foscari, gratificato anche dall'aria “O vecchio cor che batti”.
Alla fine, mentre fra gli applausi fioccano le richieste di bis, mentalmente si passano in rassegna le possibilità: per il baritono, dalla gioventù alla piena maturità, la vocalità non cambia poi in modo così radicale, mentre le tipologie di soprani fanno la differenza. Gilda o Aida sembrano fuori discussione. Gulnara forse resta in gioco, anche se sarebbe scelta assai ricercata per un fuori programma; alla fine il dubbio nel pronostico oscilla fra un più elegiaco “Andrem raminghi e poveri” da Luisa Miller e il concitato “Mira d'acerbe lagrime dal Trovatore. Vince quest'ultimo, a dimostrazione che questa sera non ci si vuole risparmiare quanto ad accenti infuocati e passioni contrastanti. Il pubblico, nondimeno, reagisce con calore ed entusiasmo.
Ma questa non è una serata solo di canto e parola scenica, in questo 208° compleanno di Giuseppe Verdi si inaugura anche un nuovo sipario che andrà ad affiancare quello storico di Giovanni Battista Borghesi. Eravamo abituati all'allegoria di muse, ninfe, Maria Luigia, Apollo, Marsia e tre grazie un po' sgraziate, ora la vedremo alternarsi con i puri colori squillanti geometricamente combinati da Mimmo Palladino, con un intarsio di dettagli simbolici, come un ramoscello verde di cui non si vede né l'inizio né la fine ma solo il perenne rigermogliare, dettagli di decori, maschere, scorci vagamente à la De Chirico della facciata del Teatro. Rosso, verde, oro, blu, bianco. I laboratori del Regio sotto la guida di Franco Venturi hanno fatto un ottimo lavoro per questo nuovo tassello della sua storia, che non cancella il passato ma continua ad arricchirlo con nuovi contributi ripensando se stesso.